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L’esperienza della fragilità. La morte oggi secondo Paul Yonnet

In tutto il mondo occidentale si è prodotto un fenomeno che Paul Yonnet, sociologo francese, ritiene essere un aspetto essenziale per la nascita della modernità; lo studioso lo ha presentato nel libro La ritirata della morte. L’avvento dell’individuo contemporaneo (2012) con una tesi che ha conferito alla sua analisi un carattere di assoluta originalità, da lui stesso definita “La ritirata della morte”.

Sebbene Yonnet non neghi l’importanza dell’influenza di variabili di carattere anche di diverse altre derivazioni, come quelle di tipo politico o più generalmente culturale, con l’espressione ritirata della morte egli intende analizzare quel lungo processo di transizione demografica che è stato caratterizzato dalla scomparsa quasi totale della mortalità infantile e giovanile, a cui si è affiancata una notevole diminuzione di mortalità dovuta al parto.

Questi fenomeni sono senza dubbio fra i più importanti nella storia dell’umanità in quanto rompono definitivamente un equilibrio etnografico millenario e un intero sistema di relazioni fra il mondo naturale, quello sociale, quello degli affetti.

A partire da questi due fenomeni si assiste, secondo l’autore, ad una serie di trasformazioni che spiegano molte delle caratteristiche della società contemporanea.

La risposta al crollo della mortalità infantile e giovanile si avrà attraverso una rivoluzione demografica che vede, subito dopo l’inizio della “ritirata della morte”, inizialmente un’esplosione della popolazione e in un secondo momento, invece, un drastico calo della natalità, che in tempi diversi arriva ad abbracciare il mondo intero. Dunque, attraverso questo adattamento demografico vi è una reale trasformazione dell’infrastruttura morfologica della società: la nascita dei legami privati, “lo spirito della famiglia” indebolisce “lo spirito di società”. La famiglia diventa molto più di un modello; da “cellula base della società” tende a trasformarsi in vera e propria “cellula di base dell’individuo”.

Come affermava Émile Durkheim, lo sviluppo dell’individuo che caratterizza la modernità non è accompagnato da un reale indebolimento dei legami sociali, quanto piuttosto da una metamorfosi di questi ultimi. Nelle società moderne, in cui prevale una solidarietà di tipo organico ed è fortissima la divisione del lavoro, emergono la cooperazione cosciente e libera fra gli agenti sociali, lo sviluppo della contrattualizzazione delle relazioni sociali e la conseguente concezione dell’individuo come singola persona e non unicamente come parte di un gruppo.

È qui che nasce l’individuo, un agente che produce, costruisce e rielabora una società che deve rispondere alle sue esigenze.

A seguito della riduzione della mortalità dovuta al parto, invece, si comincia ad assistere ad una metamorfosi dell’infrastruttura psicologica della società e soprattutto dell’identità delle donne, le quali si sentono finalmente liberate dalle millenarie costrizioni di riproduzione della specie. Se in principio, infatti, le finalità dell’istituzione-famiglia erano quelle di assicurare una successione tra una generazione e l’altra, oggi la loro funzione risulta essere completamente diversa: la riproduzione cambia di senso, non è più considerata un obbligo sociale e il figlio diventa solo ed esclusivamente un figlio desiderato, programmato e voluto in un modo molto razionale.

Se ai fenomeni già accennati affianchiamo quello che il sociologo francese considera una conseguenza diretta dei due precedenti – ovvero l’allungamento della vita media – vediamo emergere altre significative trasformazioni, tra cui una profonda ridefinizione dell’età della vita e la concentrazione della morte in età avanzate.

Queste trasformazioni ridefiniscono letteralmente l’individuo e il suo rapporto con il mondo e con l’esistenza. L’uomo contemporaneo vive in una sorta di “incoscienza euforica”, rimuovendo la coscienza della morte per quasi metà della sua vita. Il culto della gioventù, frutto di questi nuovi orientamenti, inteso come proiezione nel futuro e come preparazione all’esistenza, è fortemente idealizzato, mitizzato e infine preso a modello dagli stessi anziani. L’autorità sociale degli anziani, precedentemente percepita come saggezza ed esperienza, indietreggia lasciando il posto alla svalorizzazione della tradizione stessa.

Avviene uno slittamento della morte verso la vecchiaia, e quest’ultima non solo diventa l’incarnazione della morte stessa, ma viene vista soprattutto come un ostacolo economico e sociale al progresso della società contemporanea.

Le conseguenze di questo processo, quindi, sembrano essere l’emergere di nuove generazioni che si sentono sempre più legittimate a coltivare un perenne senso di immaturità e spensieratezza, legato ad un euforico senso di immortalità che per Paul Yonnet non è una perversa ostentazione della vita quanto un effetto del suo contrario, ovvero di una inspiegabile paura ed angoscia nei confronti della morte, alla quale in vita non si è preparati.

È quindi la negazione della morte la caratteristica che contraddistingue l’uomo costruito dalla “ritirata della morte”, ed è dietro questa negazione che si rivelano nuovi atteggiamenti compulsivi come l’esaltazione del benessere fisico o il perseguimento della giovinezza a qualsiasi costo, il terrore per le malattie, il consumo smodato e inconsapevole di alcol e droga, che per Yonnet non rivelano nient’altro che la paura ossessiva della solitudine, il terrore di non essere più desiderati da nessuno e di non essere sufficientemente amati.

Questo invincibile terrore della solitudine potrebbe secondo Paul Yonnet condurre verso la scomparsa della capacità di introspezione tipica dell’uomo della modernità. Sempre più persone, durante il corso della loro vita quotidiana, quando si trovano a fronteggiare situazioni di solitudine, momenti di vuoto, ricorrono all’utilizzo delle più svariate tecnologie, (telefonini, internet, chat, social network), per rassicurarsi grazie ad una evidenza che dimostri loro che qualcuno li sta cercando. Sembrerebbero queste le modalità attraverso cui l’identità dell’uomo contemporaneo si sta ristrutturando. Il solido della modernità sembra destabilizzarsi in favore di una sorta di inversione di tendenza del precedente processo di individualizzazione. A partire da un certo momento storico, l’identità nella contemporaneità occidentale sembrava riferita a modelli di vita sempre più lontani da ogni profondità o riflessione interiore, tesi a far emergere una condizione emozionale rigida e superficiale, contrassegnata dalla cancellazione di sentimenti negativi come la tristezza e l’indifferenza al dolore.

Secondo l’originale tesi di uno studioso francese, Alain Ehrenberg (1999), sarebbe necessario seguire le tracce di questo mutamento della soggettività occidentale attraverso l’analisi delle sue patologie psichiche. Mentre sull’individuo occidentale moderno incombeva una patologia psichica definita nevrosi – malattia che sembrava essere la risposta di un uomo tormentato da un’infinita conflittualità interna e dal dramma della colpa – di converso, l’uomo contemporaneo sembra essere caratterizzato da una patologia considerata la sua diretta sostituta, o discendente, la depressione. Nella sfera privata la risposta non è data più dall’elaborazione della colpa o dalla rigida disciplina interiore, bensì dalla responsabilità individuale e dall’autonomia decisionale che conduce verso un consequenziale senso di vergogna per il senso di inadeguatezza che deriva dalla sensazione di non riuscire a soddisfare le aspettative richieste dalla società, incidendo direttamente sull’identità e in particolar modo sull’autostima individuale. Questa stessa idea è la base delle teorie di un altro studioso, Horst Eberhard Richter (2001), che, a tal proposito, propone una tesi di fondamentale importanza per la comprensione di alcune caratteristiche dell’identità dell’individuo contemporaneo.

L’uomo contemporaneo – secondo questo studioso – abbandonato il suo Dio, e con esso tutte le certezze sul senso dell’esistenza, e servendosi della razionalità e del dominio della scienza sul mondo, ha sacrificato la sfera dell’interiorità in favore della logica dell’intelletto, con la conseguente eliminazione della sensibilità e di qualsiasi possibilità di sofferenza.

Queste caratteristiche socio-psicologiche, secondo Richter, ma anche secondo la tesi proposta da Yonnet, sarebbero dettate da una sorta di terrore e rifiuto che l’uomo contemporaneo manifesterebbe sempre più man mano che fa esperienza della sua fragilità, della vulnerabilità e più in particolare della consapevolezza della sua inevitabile mortalità.

 

Letture

Ehrenberg Alain, La fatica di essere normali, Enaudi, Torino, 1999.

Richter Horst Eberhard, Il complesso di Dio, Ipermedium, Napoli, 2001.

Paul Yonnet Paul, La ritirata della morte L’avvento dell’individuo contemporaneo. S. Maria C. Vetere, Italy, Ipermedium, 2012.

 

di Alessandra Santoro

 

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