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L’autostrada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni di revoca

Da quasi un anno e mezzo, la politica italiana ha trovato un nuovo succulento brandello di carne attorno a cui accapigliarsi e sciacalleggiare: la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia (Aspi), dopo la tragedia del Ponte Morandi. 

Con la decisione del governo Conte 2 di inserire nel Milleproroghe, con forzatura che eccede ampiamente i già elevati standard di assurdità legislativa, i criteri di subentro ad Aspi in caso di revoca della concessione, abbiamo fatto un passo avanti verso il finale di partita. O forse no.

La misura è a rischio di incostituzionalità, come sostiene la capogruppo Atlantia? Non tanto nella previsione che Anas subentrerà al concessionario revocato quanto, a mio avviso, nella successiva modifica al testo originario della disposizione, che dichiara nulla la revoca unilaterale “d’anticipo” da parte del concessionario, per richiedere un maggior indennizzo.

La verità è che siamo pressoché smarriti in terra incognita, e di questo è consapevole chiunque sia provvisto non tanto di studi giuridici ma di un modicum di senso comune. Ora si pone la questione dell’esigenza di uno scudo penale anche per Anas, in ipotesi di subentro ad ASPI. Non che ci volesse molto a capire che sarebbe finita così. Stiamo diventando la repubblica degli scudi penali, forse una riflessione servirebbe.

Chi legge con regolarità questo sito ne conosce la posizione: le concessioni autostradali italiane sono uno scandalo persistente, con il loro indecente segreto di Stato. Un caso di purissima patologia e di cattura regolatoria spinta agli estremi. Come uscirne, allora?

La risposta più banale, per evitare torsioni dello stato di diritto, sarebbe quella di attendere il termine naturale delle concessioni. Che tuttavia è quasi sempre assai remoto. L’alternativa è stata identificata nel nuovo regime di convenzione stabilito dall’Autorità di regolazione dei trasporti (Art), che prevede nuovi criteri per gli adeguamenti dei pedaggi, basati su correttivi alle maggiori storture del sistema attuale, come la sottostima dei volumi di traffico, che è alla base dei sovraprofitti dei concessionari. Nel Milleproroghe è stabilito che i concessionari debbano accettare questi criteri ed incorporarli al rinnovo del Programma economico finanziario (Pef), che è l’unità temporale quinquennale che scandisce la concessione. Dopo questa accettazione, si sblocca l’adeguamento tariffario previsto.

Tutto molto bello e pure condivisibile. La revisione delle convenzioni, intendo. Peccato che forzare gli eventi contrattuali sia la strada garantita per un contenzioso amministrativo di proporzioni bibliche, cosa che infatti sta avvenendo, e mi stupisco dell’eventuale stupore.

E quindi, che fare? Lo so, molti tra voi sono in questo momento impegnati a sbeffeggiarmi: “ecco il cosiddetto esperto che non riesce a dare soluzioni, che noia”. Forse perché le soluzioni, quelle rapide, indolori e prive di effetti collaterali, semplicemente non esistono. Ricordate che la definizione di populismo è “soluzioni semplici a problemi complessi”. Cioè grossi guai che si sommano ad altri guai.

In questa indecorosa vicenda, che parte da assai lontano, nessuno è innocente: né chi per lustri ha firmato i protocolli segreti di Stato, né chi oggi sbraita per ottenere espropri quick e soprattutto dirty. Dietro ai quali si cela l’enorme cupidigia di uno stato fallito causa crisi fiscale.

Le autostrade sono una utility, cioè un’attività regolata che genera enormi flussi di cassa. Anche al netto degli investimenti in sviluppo e manutenzione, i flussi liberi sono tali da far luccicare gli occhioni ad una classe politica dove convergono cleptocrati e soggetti alla costante ricerca di qualcosa da “redistribuire”, per comandamento supremo della loro religione.

Niente di meglio delle autostrade, quindi, per disporre di un “tesoretto” o meglio di un “tesorone”. Una distesa oceanica di liquidità a cui “attingere”, per dissetare il popolo disidratato. Lo vedete, lo schema? Flussi di cassa devoluti con voluttà a spesa pubblica, meglio se corrente. E magari anche a sussidio incrociato di qualche imprescindibile “attività strategica” per il nostro paese, come Alitalia o Ilva. E la cassa integrazione per omnia derogae saeculorum. E volete mettere, affacciarsi al balcone o su Facebook l’ultimo dell’anno, e proclamare: “Italiani! Abbiamo abolito la povertà! Da domani niente aumenti dei pedaggi!”

Fino all’inesorabile punto di devolvere anche la parte destinata ad investimenti e manutenzione della rete, magari. E di lì a poco, arrivare a dare la colpa ai tedeschi ed agli orridi burocrati di Bruxelles, che ci impediscono di “fare investimenti” e risollevare il miserrimo stato della rete. Basta con questo austero liberismo, signora mia, fuori gli investimenti dal calcolo del deficit!

C’è pure la variazione sul tema, quella localistica ed autonomista: regionalizziamo le tratte autostradali ed ogni regione si tenga il bottino, provvedendo alla gestione. Stesso esito visto sopra ma con l’aggiunta di diseconomie di scala e di rete.

Quando un paese è in crisi fiscale così avanzata, prodotto di incredibili errori (chiamiamoli così) di programmazione, e di una ideologia socialista malata che da sempre marca il Dna di questo paese, era ed è tutto scritto: sia la “privatizzazione” che si è dimostrata predazione, sia l’eventuale ripubblicizzazione, che percorre a ritroso ma con uguali esiti lo stesso cammino d’inferno che ha portato alla svendita del patrimonio pubblico.

Una predazione continua per mano di una cupola oligarchica, composta da rappresentanti pro tempore dello Stato e da soggetti nominalmente privati. La “terza via” italiana, quella vera, l’unica.

Ed ora, attendiamo gli sviluppi di questa revoca infinita, e che infiniti danni rischia di addurre agli Italici. Tra cui la paralisi degli interventi di manutenzione urgente della rete autostradale. Dite che quella paralisi è già in atto da tempo, quindi cambierebbe poco? Ottimisti.

Foto di Markus Spiske da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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