L’altra India, quella clericale e al potere
In Italia non si è scritto e parlato granché dell’esito delle elezioni indiane, se non per sottolineare che renderà più difficile la situazione dei marò. L’incredibile capacità di ridimensionare eventi mondiali alla portata del proprio ombelico è purtroppo un malvezzo tipicamente nostrano. Anche perché le elezioni nella democrazia “più grande del mondo” sono comunque un evento di portata mondiale, a prescindere.
Lo sono stati purtroppo anche i risultati. L’altra India, quella che Amartya Sen ha raccontato con affetto per i suoi valori di laicità, giustizia sociale e razionalismo, è stata spazzata via. Il Partito del Congresso, di Gandhi e dei Nehru, è crollato sotto il peso della crisi economica e degli infiniti scandali che l’hanno coinvolto, ottenendo meno del 10% dei seggi. Non ha sfondato nemmeno il Partito dell’Uomo Comune, guidato dall’attivista anti-corruzione Arvind Kejriwal: solo quattro seggi, lo stesso leader non ce l’ha fatta a ottenerne uno. Ha vinto, anzi stravinto il Bharatiya Janata Party. Il partito nazionalista indù ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento (e con gli alleati supera anche il 60%) e il suo leader, Narendra Modi, sarà primo ministro.
Modi appartiene a una sottocasta considerata svantaggiata e ha cominciato a lavorare da bambino vendendo the alla stazione degli autobus: una storia che ha contribuito al suo successo tra le classi meno abbienti. In realtà è nato in una famiglia di commercianti e politicamente viene descritto come un autocrate ultra-liberista. Ma più che agli Usa (che nel 2005 gli negarono un visto per il suo estremismo) guarderà probabilmente alla Cina. E molto probabilmente cercherà di trasformare la laica Costituzione indiana in senso marcatamente induista.
Il BJP è infatti noto per il suo integralismo religioso, essendo il braccio politico dell’estremismo indù, l’Rss — a cui, per intenderci, apparteneva anche colui che nel 1948 assassinò Gandhi. Circostanza che si traduce in una politica fortemente anti-islam (i cui fedeli rappresentano circa il 13% della popolazione). Quando, nel 2002, scoppiò un conflitto interreligioso e nello stato del Gujarat vi furono più di mille morti, il primo ministro di quello stato fu accusato di aver lasciato fare i facinorosi. Quel primo ministro era proprio Narendra Modi, a sua volta membro dell’Rss. Ci si chiede dunque quali tensioni innescherà, ora che è primo ministro dell’intera Unione.
Emblematico di questo passaggio storico è il voto dei dalit, i paria da sempre oppressi e privati di diritti. Se immediatamente dopo l’indipendenza seguivano Ambedkar, il fuori casta considerato il padre della Costituzione indiana, negli ultimi anni avevano votato in massa per il Bhujan Samaj Party, il partito di Mayawati, la cosiddetta regina dei dalit nota per gli eccessi, come l’aver speso 350 milioni per far erigere statue di se stessa. Nell’ultima tornata elettorale il BSP non ha preso alcun seggio e i fuori casta hanno votato in massa per il BJP. Ovvero, proprio il partito che ha sempre rivendicato il carattere “tradizionale” della loro oppressione.
In tutto il mondo spira un forte vento nazionalista. Che soffia sulla retorica delle radici, spesso religiose: persino in Cina è da anni in corso un revival del confucianesimo. Per chi non crede in un dio e si batte per l’affermazione della laicità non è certo una buona notizia.
Questo articolo è stato pubblicato qui
Lasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox