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L’Occidente riempe di armi i regimi arabi

L'Occidente che dice di schierarsi accanto alle masse arabe che chiedono libertà e democrazia, sta armando come non mai i peggiori regimi repressissivi dell'area. Non si tratta solo degli Stati Uniti o della Francia e della Gran Bretagna che da sempre riforniscono con generosità le loro rappresentanze coloniali, adesso nel ricco mercato sono entrate anche la Germania e la Russia. Ha destato perplessità il via libera del governo tedesco, in seduta segreta, per la vendita di 200 carri armati di ultima generazione all'Arabia Saudita. Un contratto da quasi due miliardi di euro, ma molto meno ne ha destato un contratto analogo e più grasso con l'Algeria. Questo nonostante l'esistenza di una direttiva federale che impone ai governi tedeschi di non vendere armi a quei paesi che non rispettano i diritti umani perché, se in Algeria sono poco rispettati, in Arabia Saudita sanno cosa sono solo per sentito dire. Non si sa come andrà a finire con i carri armati, per ora la cancelliera Merkel si è limitata a esprimere irritazione per l'infrazione del segreto da parte di qualche gola profonda del suo governo. L'algeria è ricca, ma è tra gli ultimi paesi del mondo arabo per investimenti in ricerca e sviluppo e tra i primi per le spese militari, un po' come l'Arabia Saudita.

L'Algeria è anche un regime che ha represso sul nascere le proteste popolari che hanno accompagnato anche lì la primavera del Maghreb, agitando le armi e la paura del fondamentalismo islamico, che in Algeria è stato potente e ha prodotto una risposta sanguinosa e spietata da parte del regime. Una popolazione alla quale è offerta una formazione scolastica discreta e sufficientamente lunga, ma che poi è repressa in ogni sua manifestazione, ben oltre i divieti di manifestare il proprio scontento. Il fatto che l'Algeria risieda stabilmente agli ultimi posti di tutte le classifiche per innovazione e creatività la dice lunga ugli sbocchi offerti a una popolazione giovane e istruita da una classe dirigente dalla formazione militare e interessata soprattutto alla stabilità degli equilibri che la mantengono al potere Così l'Algeria ha concluso nell'indifferenza generale un contratto da sette miliardi e mezzo di dollari con la Russia (che in media esporta per cinque-sei miliardi all'anno), la più grossa commessa militare dalla sparizione dell'Unione Sovietica. Poi ci ha aggiunto un contratto con la Germania da oltre quattordici miliardi e mezzo, quello che non ha destato scandalo a Berlino. E queste non sono le vendite in parte auto-sponsorizzate dagli USA agli alleati, che ricevono "aiuti" in abbondanza se si tratta di procurar loro armi americane. Oltre venti miliardi di dollari sono una cifra pazzesca per un paese come l'Algeria, che già spendeva in armi il 3.8% del Pil prima di questi mega-contratti e che ha un PIL che viaggia intorno ai 150 miliardi. L'Algeria però non è minacciata da nessuno dei suoi vicini, come non lo è l'Arabia Saudita, che peraltro può contare sulla deterrenza atomica pakistana avendo finanziato il grosso dell'impresa per la "bomba atomica islamica".

Gli armamenti servono quindi esclusivamente in proiezione interna, per assicurare il mantenimento di un dispositivo repressivo insuperabile da eventuali rivolte e per scongiurare le ombre che si sono allungate sul paese con la nascita del Sud Sudan. In Algeria inoltre non hanno potuto fare a meno di notare che dopo la partizione del Sudan la corona di paese più grande dell'Africa sia passata proprio all'Algeria. Un record che storicamente si accompagna a una potenziale minaccia, perché gli stati post-coloniali più grandi spesso giustificano con la loro sola esistenza le pretese di qualche furbone, che con il pretesto di convivenze impossibili guadagna seminando caos. Quella della partizione è un'ipotesi che è circolata a lungo anche per l'Arabia Saudita, che ora sembra intenzionata a evolvere da proconsole statunitense nel Golfo a potenza regionale quasi-autonoma ed egemone. In questo senso sono significativi gli interventi militari in Bahrein (dove riposa la Quinta Flotta americana) e Yemen (ampiamente rifornito dagli States), anche se l'Arabia Saudita manca di una base demografica che renda plausibili proiezioni al di fuori della penisola arabica, tanto che per mantenere in efficienza l'esercito deve ricorrere a mercenari da altri paesi musulmani, in particolare dal Pakistan. Lo stesso per la partecipazione degli emirati filo-sauditi alla gang bang internazionale contro Gheddafi, in passato accusato di un complotto contro la famiglia reale saudita e ora da questa bombardato con grande soddisfazione. Una tendenza, quella della corsa agli armamenti, assecondata da tutti i grandi paesi occidentali i quali, lungi dal criticare paesi dove le elezioni e la democrazia non le hanno mai viste, tendono la mano agli autocrati e ne alimentano le ambizioni più inconfessabili, Stati Uniti e Francia, che ha rifilato centrali nucleari un po' a tutti e agli Emirati anche una base militare, guidano la danza, ma anche gli altri paesi corrono ad approfittare dell'occasione per portare a casa commesse che non contribuiranno certo al benessere di quei paesi e alla "sicurezza" dei loro cittadini. Un bel paradosso per quelli della "land of free" e anche per quegli altri che ogni anno celebrano "libertè égalitè e fraternitè" e il taglio della testa del re. Ma il risiko globale non è un gioco da signorine e le amministrazioni in carica in Occidente hanno già dimostrato di fregarsene altamente di questo genere di dettagli. Non esistono minacce esogene per questi regimi, se non quella di una crisi di legittimazione interna tale da provocare un intervento internazionale o ancora embarghi, mandati di cattura e sequestri delle ricchezza accumulate dalle cricche a vario titolo regnaniti. Un pericolo contro il quali le autocrazie conoscono solo il ricorso alle armi, fondando la loro esistenza sul presupposto di un'autorità interna incontrastata e incontrastabile e sull'evidente indisponibilità a rinunciare al potere assoluto di stampo medioevale.

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