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L’Afghanistan che vende cara la pelle

Mentre sui tavoli di Doha si patteggia l’ingresso dei talebani nel futuro governo afghano, c’è chi non vede alcun futuro in quel che ha vissuto finora e in ciò che si prospetta. Gente della martorita comunità hazara che conta dai quattro ai sette milioni, dei trentotto cui si presume sia giunta la popolazione del Paese.

 Un’etnìa di fede sciita, la più bersagliata dagli attentati del fondamentalismo sunnita. Prima in versione taliban, e con un crescendo esponenziale dal 2016 in quella dello Stato Islamico del Levante o del Khorasan, formato prevalentemente da talebani dissidenti dalle posizioni della Shura di Quetta. Perciò non resta che combattere. Questo pensano quei giovani entrati in un gruppo armato definito ‘Resistenza per la Giustizia’. Lo fanno dopo avere visto e aiutato fratelli in fuga verso un Occidente solitamente ingrato e negli anni sempre meno accogliente. Qualcuno ha provato anche a vestire la divisa dell’esercito governativo. Ma al di là del salario, comunque non allettante (i talebani pagano di più i propri miliziani), far parte dell’Afghan Security Forces espone a un fuoco doppio, di entrambe i fronti fondamentalisti. Visto che anche i turbanti di Baradar, intenti a patteggiano per il domani politico, non hanno cessato di colpire quell’esercito che considerano collaborazionista con l’occupazione straniera.

Fra i giovani che ritengono quella delle armi una scelta obbligata ci sono pure coloro finiti in altre congreghe. Assai dibattuta quella di Ghani Alipur, noto come “comandante spada” che si muove fra il quartiere hazara della capitale, il pluricolpito Dasht-e Barchi, di cui sono insanguite scuole, moschee e intere vie, e la provincia di Wardak. Alipur è venerato dalla sua gente, che due anni or sono insorse per liberarlo dopo un arresto di due giorni operato direttamente dall’esercito di Kabul. Lui sostiene di difendere l’etnìa dal progetto di sterminio studiato dall’estremismo sunnita, però c’è chi gli rinfaccia altrettanta violenza dipingendolo come l’ennesimo signore della guerra, un ruolo che nel Paese non tramonta mai. Anzi, certi scenari di conflitto possono riaprirsi sia se i talebani entreranno in un prossimo governo, sia se ne verranno esclusi. Ovviamente in quest’ultimo caso saranno loro a rilanciare una guerra aperta, ma la lotta interetnica può riprendere fiato come avvenne trent’anni fa. E se dei combattenti di allora restano ricordi e miti, altri pur invecchiati, allungano la lugubre ombra e il conseguente peso politico sulla quotidianità. Uno, l’uzbeko Dostum, il cui figlio Bator oggi partecipa ai colloqui di Doha, ha visto un suo protetto Nizamuddin Qaisari, accusato di violenze e stupri, proprio come lui.

Che però nel 2017 ha preso un volo per una provincia turca ed è rimasto in disparte finché le acque non si sono calmate e le accuse sono svanite nel nulla. Qaisari invece era stato fatto arrestare dal presidente Ghani che si vantava di portare giustizia, tranne dopo qualche mese rimangiarsi tutto liberare Qaisari e rimetterlo nella condizione di controllare il suo feudo con milizie armate. Eccolo, dunque, l’Afghanistan mai scomparso. Province frazionate in mandamenti dove accordi non scritti fanno agire e lucrare col contrabbando (oppio e armi su tutto) i boss di quei territori, sia che risultino giurisdizione governativa (poca roba), sia che prevalgano i talebani. Ai due contendenti, e all’Isil, interessano bandiere e grande potere, gli altri trattano nel sottobosco dell’affarismo. Ma le fazioni armate allettano grandi e medi manovratori, le potenze regionali che da decenni influenzano il quadro afghano. Il governo pakistano duetta coi talebani ortodossi, quelli di Akhundzada, l’Intelligence di Islamabad incentiva gli islamisti del Khorasan. Il governo iraniano ha carezzato e finanziato milizie di warlord, negli ultimi anni per mano dei Pasdaran ha intruppato giovani hazara presenti nel suo territorio nei battaglioni Fatimyiun impegnati in Siria. Non è detto che con simili milizie gli hazara combattano anche in casa, per non essere definitivamente estromessi da casa.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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