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Khalalilzad e l’Afghanistan dei boss

Viaggia mister Khalilzad nell’eterna missione di “stabilizzare” l’Afghanistan. I suoi interlocutori taliban avevano appena rivendicato un attacco alla base di Bagram che lui è volato in Pakistan per sondare i vertici dell’inquieto Convitato di pietra degli affari che accadono sul suo confine occidentale. 

Quindi s’è fermato a Kabul incontrando tre calibri che i turbanti snobbano: Ghani, Abdullah e l’ex presidente Karzai. Lui dice d’aver discusso coi tre un piano “per ridurre la violenza e pavimentare la via dei negoziati”, dichiarazione utile per l’immagine e le notizie di prammatica, non per la realtà. Comunque ha voluto incontrare egualmente questi simboli di ciò che poco conta per una vera pacificazione, elementi al più utili per la spartizione di affari e contrasti interni. Ne è stato un esempio in questi giorni l’operazione condotta contro un boss legato al potere ufficiale: il capo della polizia di Faryab, Nizzamuddin Qaisari, ex uomo del vicepresidente Abdul Rashid Dostum. Qaisari è stato arrestato a Mazar-e Sharif assieme a 150 uomini, subendo un’azione spettacolare contro la propria abitazione-fortezza, una sorta d’assedio durato venti ore che ha visto l’uso di reparti speciali dell’esercito forniti di elicotteri. Gli studenti coranici sicuramente avranno sorriso davanti a queste lotte intestine, testimonianza delle spaccature dei clan preposti al futuro democratico del Paese.

Una breve biografia di Qaisari fa comprendere meglio lo scenario. Parte come agricoltore e nella provincia di Faryab acquisisce potere ponendo i suoi servigi a uno dei veterani del sopruso verso la gente, il signore della guerra Dostum. Quest’ultimo negli anni è diventato un uomo di governo, addirittura vicepresidente, da quando nel 2014 la diarchia Ghani-Abdullah venne insediata al vertice dalla nazione dal Segretario di Stato americano John Kerry. Qaisari, sostituendo il suo boss nel distretto di Faryab, diventa addirittura capo della polizia, così riesce a coprire le malefatte criminali proprie e quelle attuate per conto del vicepresidente. Le più comuni: impossessarsi di fasce di territorio non solo con un controllo armato del medesimo, operato con milizie ufficiali (di polizia) e ufficiose (paramilitari al suo personale servizio), ma requisendolo ai legittimi proprietari assieme alle attività svolte in loco. Nello scorso settembre, in piena campagna per le presidenziali - che nelle intenzioni del regista Ghani avrebbero dovuto riproporre il sistema collaudato da sei anni, con tanto di spartizione di potere fra lui Abdullah e Dostum - s’è verificato un cambio di rotta di Qaisari. Che voltava le spalle al suo signore appoggiando la candidatura di Rahmatullah Nabil.

Da qui la sua caduta agli inferi con l’arresto dei giorni scorsi, un’azione politica punitiva provocata dal suo voltafaccia, dicono esplicitamente commentatori ma anche membri del Junbish-e Milli, il partito su cui regna Dostum. Quindi, prima di ritornare a Doha a incrociare sguardi e discorsi coi rappresentanti dei turbanti, il rappresentante statunitense per la scottantissima questione afghana ha raccolto gli umori degli ingombranti vicini e pure degli esclusi: gli afghani dei governi, ormai sicuramente passati. Francamente non saranno costoro a “bloccare le violenze” come auspicano, tutto dipende dai talebani ora carezzati soprattutto dal Pentagono con lo scopo di firmare un accordo. Sarà proprio questa firma e fermare gli attentati, promette il portavoce talebano, ma le condizioni restano quelle già esplicitate da mesi: i turbanti non vogliono spartire dialoghi né tantomeno potere coi boss afghani mascherati da politici. E qui il black out resta. Nell’annuncio talib un’altra staffilata è rivolta alla Casa Bianca, incerta sul da farsi, che tiene i piedi nelle staffe dell’apertura all’ex nemico e nel plateale gesto (a settembre, dopo la morte d’un militare statunitense durante un attacco) di blocco delle trattative. Con l’aggiunta di bombardamenti indiscriminati, com’è accaduto di recente in alcune aree. Fra ‘stop and go’ la partita prosegue. E le vendette interne pure. 

Enrico Campofreda 

 

 

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