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Kabul amara anche per i sikh

Se dopo lo sbandamento e il riassetto di tarda estate 2021 e l’autunno segnato dall’allarme alimentare Kabul era rimasta divisa fra le proteste di gruppi femminili, le speranze disattese di molti desiderosi di fuga, le ronde talebane che un po’ intimorivano, un po’ promettevano nuovi scenari tutti traditi, la primavera ha riportato bombe, morte e instabilità. In tre mesi cento persone sono state assassinate tramite attentati, che proseguono tuttora. 

Nel mirino non solo la copiosa minoranza sciita degli hazara, ieri una bomba ha colpito l’area del gurdwara, luogo di culto della comunità sikh nella capitale afghana situato a Karte Parwan, un quartiere di nord-ovest. Alcuni miliziani hanno superato la vigilanza, aprendo le porte blindate del tempio dove si sono scatenati i resti del commando. Durante l’assalto una bomba posta in un’auto parcheggiata nei pressi esplodeva e la deflagrazione seminava panico, ferendo alcuni passanti. Il caso, o la non precisa informazione degli assalitori, ha messo in atto l’agguato mezz’ora prima che iniziassero le preghiere e questo ha sensibilmente ridotto il numero delle vittime che sono state due, con alcuni feriti. La testimonianza d’un medico ospedaliero riferisce la presenza dei cadaveri di sei operai giunti dal luogo dell’attentato, di cui però finora nessun comunicato ufficiale ha dato notizia. Egualmente non c’è traccia di rivendicazione, seppure la tivù locale ha ipotizzato la mano dell’Isis-Khorasan. Il gruppo dei sikh nel ventennio di guerra incrementata dalle missioni Nato s’è sensibilmente ridotto, resta a Kabul un nucleo simbolico (meno di duecento persone, qualche anno fa erano oltre duemila) che s’occupa delle funzioni nel tempio. E’ la diversità di culto uno dei motivi che guida gli attacchi sanguinari del fondamentalismo sunnita, sia quello talebano attualmente al potere, sia quello che gli si oppone dei dissidenti dell’Isis-K.

Fra le due componenti da un quadriennio è in atto una sfida indiretta che si sviluppa in alcune province, ma soprattutto in quella mediaticamente più rilevante della capitale. Dimostrare, attraverso agguati, di potersi muovere militarmente ovunque e perciò controllare il territorio è lo scopo degli attentatori. I talebani l’hanno fatto per anni durante i governi Karzai e Ghani, mettendo in mostra la propria capacità di penetrazione nei luoghi blindati, o presunti tali, di Kabul. I miliziani del Khorasan ne seguono le orme. Ora i primi, investiti del ruolo di governanti, dovrebbero impedire le offese esplosive, rivolte prevalentemente a innocui cittadini, ma non ci riescono. Le offensive risultano più semplici dei contenimenti. Giocano a favore l’effetto sorpresa e soprattutto le infiltrazioni, tutte mosse ben conosciute dai turbanti che su questa via hanno accresciuto nel recente passato organizzazione e credibilità. C’è da notare che l’Isis afghana non è in grado di controllare alcun distretto, eppure la sequela di agguati non cenna a diminuire e, oltre a seminare incertezza fra gli abitanti, palesa lo smacco all’attuale Emirato, colpito nella sua promozione della sicurezza nazionale. Formale e ossequioso verso i familiari delle vittime il comunicato diffuso a nome del governo dal portavoce talebano Zabihullah Mujahid, “Esprimiamo condoglianze e assicuriamo misure che porteranno all’identificazione e punizione di chi ha perpetrato il crimine”. Ma sono parole di circostanza, già sentite, che addirittura somigliano a quelle diffuse dal vecchio ceto politico - Karzai, Abdullah - attivi in questi frangenti nell’intervenire e parlare d’instabilità di questo governo che non dà spazio ad altri soggetti.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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