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Israele, Obama, Teheran e una difficile mano di poker

Le ultime elezioni israeliane hanno decretato, come si sa, la vittoria del premier uscente che si avvia ad essere uno dei politici più longevi nella storia del paese.

A dire il vero nell’insieme i partiti di centrodestra hanno perso, complessivamente, quattro seggi che sono andati all’opposizione di centrosinistra. Perdita che dipende da motivi vari, ma che mostrano comunque una certa, timida tendenza dell’elettorato quantomeno a mettere in discussione l’attuale leadership ed anche a tornare a votare (questo vale per gli arabi in particolare). Interessante notare che nella basi dell'aviazione - lo scrive Sergio Della Pergola su Pagine ebraiche - il partito più votato non è il Likud, ma l'Unione Sionista di Herzog-Livni.

E come era immaginabile il partito centrista Kulanu ha alzato la posta a dismisura pretendendo per sé non solo il dicastero dell’economia, ma anche la presidenza della relativa commissione parlamentare che era stata affidata in un primo momento all’estrema destra religiosa. Difficoltà in politica interna per il nuovo governo Netanyahu, ampiamente previste fin da subito.

I problemi in politica estera arrivano invece dal ventilato accordo USA-Iran sul nucleare che sembra tale da impensierire seriamente il governo di Gerusalemme.

L’inviato della Stampa a New York, intervistando l’ex direttore della CIA James Woolsey, riporta le sue parole: «quello che ho letto finora [della bozza di accordo] mi lascia molto scettico... lo scopo dell’accordo dovrebbe essere quello di impedire all’Iran di costruire la bomba atomica, ma le capacità nucleari che verrebbero lasciate a Teheran non precludono questa possibilità».

La preoccupazione espressa dall’alto ex capo dell’Agenzia non è altro che la voce di quell’opposizione palese al Presidente che sembra prospettarsi in parlamento; la maggioranza repubblicana sembra essere pronta non solo a sbugiardare apertamente Barack Obama prima della firma, ma anche a far capire chiaramente ai negoziatori di entrambi i lati del tavolo che l’eventuale accordo sarebbe poi affossato al Congresso: «la legge stabilisce che un trattato come quello in discussione con Teheran debba essere approvato al Senato con una maggioranza di almeno due terzi dei voti». L’avvertimento sembra essere chiaro e forte.

Ora, nel funambolico gioco delle parti che la politica internazionale mette in scena da sempre, tocca ad Obama e al suo vice Kerry fare la prossima mossa.

Fino ad ora abbiamo visto i giocatori fare un’azzardatissima mano di poker, in cui la posta è stata alzata freneticamente: alle elezioni anticipate in Israele - qualcuno dubita ancora che siano state programmate proprio per dare un segnale inequivocabile (per quanto Netanyahu abbia rischiato davvero grosso) proprio nella fase finale dei negoziati di Ginevra? - ha fatto seguito un accordo di cooperazione militare del tutto inedito tra Stati Uniti e Iran in funzione anti-Isis, che di sicuro non ha fatto piacere né agli arabi del Golfo né ad Israele.

Abbiamo quindi assistito allo sgarbo diplomatico di Netanyahu volato a Washington per parlare solo ai parlamentari repubblicani, a cui ha risposto il Presidente USA concedendo a Teheran (a parole) forse più di quanto voglia davvero concedere. Ora arrivano gli avvertimenti della maggioranza del Congresso attraverso le parole di James Woolsey. Ovvio aspettarsi una contromossa americana sul leader di Kulanu per mettere seriamente in difficoltà il governo israeliano al suo interno.

Nel frattempo Teheran, che sembrava in grosse difficoltà con l’inizio della “primavera” siriana e poi con l’espandersi del Califfato nel nord dell’Iraq, sta tornando prepotentemente sul palcoscenico mediorientale. Nell’ipotesi di una non impensabile sconfitta dell’Isis, la sua area di influenza si espanderebbe senza soluzione di continuità dall’Afganistan (dove conta non poco) fino al Mediterraneo, senza più nessuno degli ostacoli storici che gli si contrapponevano, come l’Iraq di Saddam (ma andatelo a spiegare a Bush figlio).

E senza più alcun confine ostile attraverso cui dover far passare quegli armamenti che regolarmente spediva a Bashar al Assad e a Hezbollah e che un domani potrebbero arrivare ben più massicciamente ai confini dello stato ebraico.

A meno che qualcuno non sia davvero convinto che il regime degli ayatollah sia una combriccola di allegri boy scout bonaccioni, è chiaro che questo è il vero pericolo per Israele, anche più del nucleare che potrebbe essere, alla fine, solo una delle mosse interlocutorie, non la partita finale.

Poi ci sarebbero anche i palestinesi di cui, palesemente, non importa più niente a nessuno. A meno che non siano l’unica merce di scambio che Obama vuole davvero da Israele per meritarsi quel Nobel per la Pace che gli è stato dato un po' (un po' tanto) prematuramente.

I palestinesi potrebbero vedere all'orizzonte la possibilità di ottenere almeno qualche vantaggio politico, grazie alla mano di poker fra i "grandi". Ma sono ormai isolati nel mondo sunnita: né l'Egitto, alle prese con l'islamismo interno, né l'Arabia Saudita, appena impegnatasi nella guerra civile yemenita in funzione antisciita (cioè contro l'influenze di Teheran), hanno il benché minimo interesse a incrinare l'asse con Israele. Non ora.

E questo giocherebbe a favore di Abu Mazen, ma farebbe fuori del tutto Hamas. Nulla vieta di pensare quindi che possa avvenire di nuovo qualcosa che renda impossibile un accordo di basso profilo, molto "moderato", capace di accontentare gli americani democratici e di non scontentare troppo i repubblicani, di far contento l'establishment di Ramallah, ma senza nulla togliere davvero all'Israele laico e pragmatico, preoccupato davvero, senza isterismi politicamente orientati, per la sua sicurezza.

Gli interessi contrapposti dei falchi israeliani e palestinesi sembrano di nuovo coincidere quindi; il che non è mai, davvero mai, una buona notizia.

 

Foto: David King/Flickr

 

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