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Iran-Pakistan, frontiere calde

Non è l’India ma l’Iran l’oggetto delle attenzioni belliche delle Forze Armate pakistane a loro volta prese di mira dai missili di Teheran. 

L’intreccio aggiunge fuoco su un medioriente già in fiamme per il conflitto nella Striscia di Gaza fra Idf e Hamas, con l’indiscriminato massacro dei civili palestinesi da parte israeliana. E due fronti incandescenti: nel sud del Libano, sempre fra lsrael Defence Forces ed Hezbollah e nel golfo di Aden, dove agli assalti alla navigazione mercantile lanciati dagli Houthi si alternano i bombardamenti sul suolo yemenita delle aviazioni statunitense e britannica. L’ennesima tensione è deflagrata e si è ampliata in quarantott’ore, il tempo seguito a un attacco missilistico scagliato sul territorio pakistano. Nella versione iraniana contro una base del gruppo separatista Jaish al-Adl che agisce in Balochistan, ma secondo l’ottica pakistana con un’aperta violazione del proprio spazio aereo e territoriale. Per tutta risposta i droni di Islamabad hanno colpito presunti nascondigli di miliziani dell’Esercito di Liberazione del Balochistan entro il confine iraniano, restituendo insomma l’incursione bellica al Paese confinante. I due vicini dicono di attaccare terroristi, di fatto i rispettivi missili fanno fuori anche civili. Due bambini martedì a Panjgur, nove persone oggi presso Saravan. La realtà si somma alla strategia. L’area del Balochistan si estende fra i due Paesi - e come il cosiddetto Pashtunistan compreso fra l’afghana Jalalabad e la pakistana Peshawar - costituisce un territorio fantasma che alligna nei sogni dei separatisti, in genere guerriglieri sunniti. Così dal 2012 i Jaish, sotto la direzione dei leader Farooqui e Naroui, lanciano attacchi periodici a militari iraniani, pasdaran e le loro caserme. Un anno via l’altro. Ovviamente vengono anch’essi colpiti ma nella desertica regione meridionale rappresentano un’ulteriore spina per il governo degli ayatollah già messo in allarme dalle contestazioni e dal crescente malcontento popolare. Cui si sono aggiunti attentati di varia matrice, opera del Mossad che colpisce gli ingegneri del piano nucleare, di ‘mujaheddin del popolo’ foraggiati dalle Intelligence occidentali, quindi l’Isis che si attribuisce stragi come la recente di Kerman.

Il Pakistan non sta meglio. Un numero ben più numeroso di sigle rivendicano separazioni e autonomie - nel Waziristan, nei Territori federati (Fata) - a suon di sanguinosissimi attentati. I Tehereek-e Taliban sono tristemente noti anche per stragi di civili inermi, cui s’aggiungono formazioni di un’intransigenza assoluta (Laskar-e Tayyiba, Jamat-ul Da’awa, Jaish-e Muhammad) intente più a destabilizzare che a proporre progetti politici. Costoro differiscono sia dal nazionalismo dei taliban afghani, sia dai ridisegni ideali del Califfato propugnato dallo Stato Islamico. Alcuni gruppi sono intenzionati a convivere con governi più o meno filo occidentali come quelli delle dinastie Bhutto e Sharif, pur di gestire aree in proprio la quotidianità come accade nelle Fata o svolgere indisturbati personali interessi economico-strategici oppure proseguire una presenza armata all’ombra dei governatori ufficiali. Haq Katar, l’attuale premier di un Paese che aspetta da diciotto mesi le elezioni, guidava in precedenza quel Balochistan dove i saramchar (combattenti) del BLA “convivono” coi militari ufficiali. Eppure talune convivenze non hanno virgolette. Seguono accordi ufficiali o ufficiosi imposti dai notissimi gruppi di potere (la lobby militare e l’Inter-Service-Intelligence) a partiti e governi. Talvolta col benestare di quest’ultimi, in altri casi contro di loro con conseguenze simili a quelle vissute dall’ex premier Khan, portato sugli scudi e poi scaricato proprio dai generali. Nel Paese del fondamentalismo deobandi, delle madrase come Darul Uloom Haqqania dove si predica una jihad intesa unicamente come guerra santa, non come sforzo per conseguire obiettivi, s’è formata la stirpe degli Haqqani, Jalaluddin e Sirajuddin. E il mullah Omar, che non completò gli sudi ma ebbe un dottorato a onore, e Mansour e Khalis. Insomma combattenti di Allah. Ma negli ultimi tempi il Pakistan ha conosciuto anche movimenti come i Tehreek-e Labbaik che praticano il doppio e triplo binario: attentati, manifestazioni di piazza (peraltro partecipatissime), dialoghi coi vertici politici. Khan parlava con loro, Sharif pure.

Diversamente da Teheran, rigida nel contrastare il nemico separatista e fondamentalista, i vertici di Islamabad coi terroristi di casa alternano bombardamenti e strette di mano. Dopo i missili gli offesi a distanza si dicono di "rispettare pienamente la reciproca sovranità e l'integrità territoriale” (sic). Si chiamano anche Paesi fraterni e rinnovano il rispetto, sebbene i rispettivi ambasciatori risultano richiamati in patria. Fra le diplomazie scosse dall’incidente, che si fa fatica ad archiviare, finora l’unica a muoversi è la Cina, immediatamente propostasi nel ruolo di mediatrice. Pechino fa affari con entrambi e ricorda loro d’essere membri dell’Organizzazione di Cooperazione di Shangai, dove fra i colossi mondiali sono presenti anche Russia e India. Però il lavoro di ricomposizione non risulta semplice perché i venti globali di guerra non aiutano, né soprattutto aiuta chi con le guerre riempie arsenali e casseforti. Che in prima battuta non sono i gruppi terroristi, ma i loro fornitori e fomentatori.

Images source: © Wikimedia Commons | BOHYUN PYUN 

 

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