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Iran - Arabia Saudita, la guerra fredda mediorientale

I moti del Medio Oriente sembrano aver smarrito lo slancio dei primi tempi. Le forze mobilitate per tamponare l'ondata del cambiamento, soprattutto in Yemen e Siria, si stanno inavvertitamente dimostrando efficaci. Inoltre c'è l'Arabia Saudita, che sta svolgendo un importante ruolo di sostegno a volte dietro le quinte (come nello Yemen), e altre attraverso l'uso della forza (Bahrein, nel silenzio dell'Occidente). Azioni volte a mantenere lo status quo, ma destinate ad avere conseguenze nel lungo periodo.

La Casa di Saud è attanagliata da due timori, che negli ultimi mesi hanno assunto la forma di vere e proprie ossessioni: l'Iran e e le manifestazioni di piazza. Due elementi in stretta connessione.

Dal 1979, ossia dall'indomani della Rivoluzione Islamica iraniana, Ryadh e Teheran sono divise da una rivalità insanabile. La monarchia saudita ha finanziato Saddam nei primi due anni di guerra contro l'Iran (al ritmo di 2 miliardi di dollari al mese), e più di recente ha contribuito a formare una coalizione di Stati arabi sunniti per arginare l'influenza iraniana sulle minoranze sciite nella regione. Va aggiunta la ferrea opposizione al programma nucleare perseguito da Teheran. Tale è la paura dell'Iran, in Arabia Saudita che è riferito disposta a concedere i diritti di sorvolo ad Israele in caso di attacco aereo ai siti nucleari in territorio persiano.

Le rivolte in Bahrein, placate con l'annessione de facto dell'arcipelago al regno di Saud, sono la seconda ossessione. Le mobilitazioni di piazza, infatti, hanno contribuito a risvegliare vecchie inquietudini nel palazzo di Ryadh. Non soltanto per il rischio, per la verità tutt'altro che teorico, che l'Iran possa sfruttare la situazione a suo vantaggio: al momento, non vi è alcuna prova che l'intelligence iraniana stia operando nella provincia orientale dell'Arabia Saudita, dove si concentra la minoranza sciita del regno, o nel vicino Bahrein, dove gli sciiti costituiscono il 70% della popolazione.

A molti non è sfuggito il sostegno, sia pur solo nelle dichiarazioni, recentemente espresso al governo di Bashar al-Assad in Siria. Un fatto singolare se pensiamo che la Siria è il miglior alleato dell'Iran, che il presidente Assad è molto amico del suo omologo iraniano Ahmadi-Nejad ed è sciita (appartiene alla setta alawita) in un Paese a maggioranza sunnita. Ragioni per cui i rapporti tra Ryadh e Damasco sono sempre stati piuttosto freddi.

L'idea di fondo è che l'Arabia Saudita sia spaventata dal processo di democratizzazione in sé. C'è dunque uno sforzo da parte dei sauditi per annullare l'insorgere di governi rappresentativi nella regione, indipendentemente dall'identità confessionale. La Casa di Saud palesa un sostegno alle autocrazie arabe paragonabile a quello dei Romanov alle monarchie assolute durante i moti del 1848. 

È probabile che l'appoggio offerto alla Siria sottenda anche un tentativo della diplomazia saudita per ingraziarsi il regime di Assad, allontanandolo dall'orbita dell'Iran, ma al momento nei piani di Ryadh la difesa del principio monarchico (sia pur sotto le mentite spoglie del presidenzialismo) prevale sul calcolo geopolitico. 

Il governo di Teheran sostiene la ferma convinzione, che dietro le mosse dell'Arabia Saudita e del Consiglio di Cooperazione del Golfo si nasconda un piano ordito da Stati Uniti e Israele per isolare l'Iran nella regione.

L'America sta cercando di seminare discordia tra sciiti e sunniti ... vogliono creare tensione tra l'Iran e gli arabi ... ma il loro piano fallirà,” ha dichiarato il presidente iraniano Mahmud Ahmadi-Nejad in un discorso in occasione della Giornata nazionale dell'esercito di lunedì. 

Ovviamente la dichiarazione è ad uso e consumo della piazza. La verità è che l'azione refrigerante della diplomazia saudita sta privando l'Iran della possibilità di beneficiare politicamente dai rovesci che hanno minato lo status quo filooccidentale in Medio Oriente. Così il governo di Teheran sceglie di cambiare strategia. Dopo settimane di crescenti tensioni con i sauditi, ora l'Iran intende riproporsi come mediatore per superare l'impasse politica in corso nella regione e in Bahrein in particolare.

La macchina diplomatica degli ayatollah si è mossa per inaugurare una nuova era nelle relazioni tra Iran e Egitto, pressoché interrotte a seguito della Rivoluzione Islamica del 1979 e della pace con Israele. "L'Iran è un paese islamico e non è un nemico d'Egitto," ha detto Field Marshal Tantawi, il capo del consiglio militare egiziana,lo scorso 9 aprile. 

Il riavvicinamento tra il Cairo e Teheran è uno sviluppo indesiderato per la triade Arabia Saudita-Stati Uniti-Israele, in particolare per la prima, che nell'Egitto di Mubarak aveva trovato un valido alleato nell'opera di contenimento all'influenza iraniana. 

Ryadh vuole mettere le mani avanti, suggerendo l'interpretazione del gesto conciliante di Teheran come un segno di debolezza, il che si tradurrebbe con l'autorizzazione da parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo ad un prolungamento del soggiorno delle truppe saudite in Bahrain.

Nel frattempo, l'Arabia Saudita ha minacciato di richiamare i suoi diplomatici d'istanza in Iran "a meno che Teheran non assicuri la loro protezione", dopo una serie di manifestazioni studentesche di fronte all'ambasciata saudita.

Vista da fuori, tuttavia, l'invasione in Bahrein e i velati ammonimenti al governo di Teheran hanno tutta l'aria dell'aggressività di un animale che si sente braccato.

In effetti, la Casa di Saud è sotto assedio. Ad ovest il suo principale alleato regionale più forte, l'egiziano Mubarak, è stato esautorato. A nord, Siria e Giordania faticano a contenere le proteste in corso. Situazione analoga sul fronte meridionale, dove infuriano gli scontri in Yemen e Oman. Ad est c'è il Bahrein, invaso per impedire che il contagio delle rivolte si diffonda nelle turbolente province orientali del Paese, nelle quali si concentra una forte minoranza sciita - e le maggiori riserve petrolifere del regno.

Il consulente per gli affari militari dell'ayatollah Ali Khamenei, il Generale Maggiore Yahya Rahim Safavi, ha detto che "La presenza e l'atteggiamento dell'Arabia Saudita (in Bahrein) stabilisce un grave precedente in vista di analoghi eventi futuri, e l'Arabia Saudita dovrebbe prendere in considerazione che un giorno tali eventi potrebbero presentarsi proprio sul suo territorio, dando agli stranieri il pretesto per un'invasione". Una dichiarazione che i sauditi vedono come una velata minaccia, ma in realtà tesa a rimarcare gli aspetti contraddittori dell'azione di Ryadh.

La stessa carta diplomatica messa sul tavolo da Teheran avrebbe lo scopo di sottolineare la distanza tra un Paese disposto al dialogo e un altro che si muove con le armi in pugno. Non è un caso se il Ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Salehi ha scritto al segretario generale dell'Onu Ban Ki-Moon per bacchettare l'organizzazione sul su silenzio riguardo al Bahrein, soprattutto se messo a confronto con l'interventismo mostrato in Libia. Lo stesso Ban, durante il suo recente viaggio a Doha, in Qatar, aveva messo l'emiro del Bahrein in imbarazzo, chiedendogli di dar prova di moderazione nei confronti dei manifestanti e di favorire la modernizzazione politica del Paese.

Un segno che la linea moderata di Teheran, forse, comincia a dare i suoi frutti. 

Il presidente americano Obama avrebbe preferito salire al soglio della Casa Bianca in altri tempi. Nessuno a Washington poteva prevedere gli attuali sconvolgimenti nel Maghreb, e l'ex unica superpotenza mondiale ha troppe questioni aperte al proprio interno per concentrarsi a dovere sull'evoluzione del marasma mediorientale.

L'Arabia Saudita confida sulla forza militare degli Stati Uniti per la sua sicurezza esterna, così come gli Stati Uniti si affidano all'Arabia Saudita per la loro sicurezza energetica. Ma negli ultimi anni questo rapporto ha scontentato gli uni e gli altri.

Tutto è partito nel 2003, con l'invasione dell'Iraq: gli Usa volevano indurre la Casa di Saud ad aumentare la produzione petrolifera per adeguarla al crescente fabbisogno interno degli americani. Oggi il prezzo del petrolio è quintuplicato rispetto a otto anni fa e la democrazia in Iraq ha portato al potere la maggioranza sciita, consegnando di fatto all'Iran un ampio margine di manovra nelle questioni interne del Paese. Il peggiore scenario possibile sia per Ryadh che per Washington. Geniale, due piccioni con una fava.

Più di recente, la monarchia saudita è rimasta delusa dal modo in cui l'amministrazione Obama ha scaricato l'egiziano Mubarak in favore dei manifestanti negli infuocati giorni di Piazza Tahrir, con il rischio che questo riconoscimento incoraggiasse un'escalation di movimenti popolari anche nella penisola arabica. Una solerzia che l'America, sottolineano i sauditi, non ha mostrato nei confronti di Israele per quanto riguarda la questione palestinese.

Inoltre, l'Arabia Saudita è profondamente delusa dal fatto che gli Stati Uniti abbiano allentato la morsa conflittuale nei confronti dell'Iran. Con il paradosso che oggi i sauditi si trovano nella scomoda posizione di lavorare segretamente con Israele per verificare i progressi del nemico iraniano sul suo programma nucleare.

D'altra parte, neppure Obama sa bene come affrontare il dossier iraniano, e altre più urgenti questioni richiamano la sua attenzione sul fronte interno.

Il pubblico americano, preoccupato per la mancanza di lavoro e le questioni di bilancio, è solo leggermente favorevole ai movimenti popolari nel mondo arabo. Inoltre i neocon non vedono di buon occhio i cambiamenti politici in atto, preoccupati che possano portare l'integralismo al potere o mettere in forse la pace tra Egitto e Israele. 

Talk radio, giornali e notiziari americani continuano ad ammonire sulla possibilità che i Fratelli Musulmani prendano il posto di Mubarak in Egitto o che la mano di di al-Qa'ida si unisca alle forze ribelli in Libia. Il (tacito) corollario è che gli interessi degli Stati Uniti suggeriscono un aperto sostegno all'esercito egiziano affinché siano i militari, e non i manifestanti che hanno rovesciato Mubarak, ad avere in mano il futuro dell'Egitto.

Forse le conseguenze più interessanti del sostegno saudita alla controrivoluzione si avranno all'interno l'Arabia Saudita piuttosto che all'esterno, anche se l'opacità del paese rende l'analisi delle dinamiche nel cuore del regno alquanto arduo.

L’Arabia Saudita, nell’occhio del ciclone della rivoluzione araba, sfodera le sue armi religiose e finanziarie per rafforzare lo status quo. Oltre a fatwa su misura che proibiscono il dissenso in quanto ‘fitna’ (divisione e disordine sociale), nonché le manifestazioni e i picchetti come forme di “insurrezione contro il governo”, il regime è ricorso alla corruzione dei suoi sudditi in cambio di fedeltà e consenso.

Anche se la Casa di Saud cerca di avvalersi delle divisioni settarie e di invocare la minaccia iraniana al fine di delegittimare il dissenso, il malcontento è ormai manifesto all’interno della società saudita, alimentato dalla repressione politica e dalla mancanza di sviluppo, come conseguenza della corruzione, del malgoverno e dello spreco di risorse in armi.

L'Iran, dal canto suo, sta cercando di sfruttare le paure saudite. Non potendo intervenire direttamente a sostegno degli sciiti in Bahrein, Teheran si limita a soffiare sul fuoco, soprattutto ora che la transizione di potere nel regno saudita è incerta e la regione è funestata dai tumulti popolari. Il problema chiave per l'Arabia Saudita è che Teheran non ha bisogno di ricorrere alla guerra per raggiungere i suoi fini: al regime degli ayatollah basta restare alla finestra, considerato che l'instabilità regionale in atto potrebbe consentirgli di rilanciare la propria posizione del Golfo Persico.

Gli sforzi di Riyadh per contrastare l'Iran e i suoi alleati arabi sciiti sono suscettibili di creare più problemi che benefici i sauditi. Alla lunga, la repressione tribuisce all'instabilità a lungo termine nella regione e a fomentare l'agitazione tra gli sciiti. Neppure l'ombrello della protezione americana serve a rassicurare la monarchia. I sauditi non si sentono a proprio agio con l'idea di un allineamento militare con gli Stati Uniti. L'ultima volta che i sauditi sono entrati in tale rapporto con gli americani è stato durante la prima guerra del Golfo nel 1991, che portò all'insinuazione di al-Qa'ida nel tessuto sociale saudita. In ogni caso, l'Arabia Saudita deve comunque continuare a fare affidamento sugli Stati Uniti per la sua sicurezza esterna. 

Nel corso dei decenni, le tensioni del Golfo sono state moderate dai piccoli Stati della regione che, pur limitati in termini di ricchezza e di potere rispetto a Arabia Saudita e Iran, hanno agito insieme garantendo equilibrio e moderazione, per timore di lacerare ulteriormente il conflitto strisciante tra Ryadh e Teheran. Sfortunatamente, i sauditi hanno convinto i propri vicini che le proteste popolari sono state isirati dall'Iran, portando molte adesioni alla posizione dell'Arabia Saudita, ma spezzando il sistema di pesi e contrappesi che nel tempo aveva garantito l'equilibrio nella regione.

Nessuno sembra rendersi conto che ai giovani in marcia per le strade del Medio Oriente non interessano rivalità di cui non hanno neppure memoria. Essi chiedono solo un futuro fatto di opportunità che ora mancano. Ma la severità dei sauditi, nel tentativo di mantenere il controllo, sta sta contribuendo a trasformare questo sogno di libertà in un incubo di repressione.

 

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