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Investimenti illiquidi come pietra filosofale

Dopo lo scoppio della bolla di liquidità gonfiata dalle banche centrali, si attendono nuovi scossoni in alcuni ambiti di mercato. Attenti alle fiabe di alchimisti interessati

Il 2022 ci ha portato in “dono” la fine del denaro facile e delle bolle soffiate in oltre un decennio dalle banche centrali. La conseguenza della corsa a perdifiato ad alzare i tassi è il collasso di tutto quello che si galleggiava su questa alta marea. Non solo le criptovalute, con buona pace dei fedeli della setta che si sono persi la genesi del fenomeno, vedendovi invece il suo contrario, e cioè il rifugio ai “deprezzamenti” monetari spinti dalle banche centrali (che tenerezza), ma anche altri investimenti, basati su multipli formidabili, cioè su promesse di redditività in un futuro indeterminato e comunque remoto.

Come molte aziende della tecnologia, ad esempio. Quel mare magnum in cui si trovano maturi mastodonti con imponenti flussi di cassa, frutto di un enorme potere di mercato, ma anche improbabili startup e fintech che promettono mirabilie.

RENDIMENTI IN CRESCITA, OVUNQUE E PER TUTTI

Ampia parte di queste seconde, durante la mega-bolla, sono state accudite e “incubate” dai cosiddetti fondi alternativi: venture capitalprivate equity e private debt. Quella categoria molto eterogenea di investitori che utilizzano varie tecniche di investimento il cui oggetto non è quotato su mercati ufficiali. Lo spettro è vasto: spazia, come detto, dal venture capital (cioè la fase di nascita aziendale o giù di lì), all’investimento azionario a leva, cioè mediante debito, al debito vero e proprio, per sostituirsi agli intermediari creditizi tradizionali.

L’aumento dei rendimenti di mercato è destinato a colpire anche questi investimenti. Lo dice la logica: sarebbe assurdo credere all’esistenza di isole felici, sapendo che il valore di un’azienda è l’attualizzazione della sua redditività attesa. Al crescere del denominatore, cioè del tasso di sconto, il quoziente si rimpicciolisce. Non è difficile.

Eppure, c’è una sorta di messaggio che proviene dai gestori di questi fondi, i cosiddetti General Partner: non preoccupatevi, con noi i ribassi sono minori e a volte manco ci sono. L’ottimismo è il profumo della vita, del resto. Eppure, l’anno appena trascorso ha visto spuntare nuove tecniche “adattive” da tali gestori, per evitare di scottarsi o rinviare il più possibile le ustioni. Prima di queste, il ricorso alla liquidità facile serviva a produrre numeri eclatanti, per attrarre investitori.

COME TI GONFIO IL TASSO

Ad esempio, visto che nei fondi alternativi la metrica di elezione (che pochi riescono a cogliere appieno, nella sua elusività e spesso fallacia) è il tasso interno di rendimento, alcuni gestori avevano scelto di indebitarsi per effettuare gli investimenti prima di chiedere ai partecipanti di versare la relativa quota capitale. L’effetto ottico, manco a dirlo, era la lievitazione del tasso interno di rendimento per gli investitori.

Ora, con i rendimenti in rialzo, questo gioco è venuto meno. Ma ne restano molti altri. Nel private equity, l’obiettivo è quello di rivendere l’azienda acquisita, con profitto. Di solito, nei cosiddetti leveraged buyout, l’azienda preda viene inzeppata di debito, cioè “messa a leva”, contando sui flussi di cassa della sua gestione caratteristica, e magari irrobustendoli con tagli feroci di costi ma anche di investimenti, che spesso lasciano l’azienda in condizioni di forte gracilità. Poi, si cerca un compratore per un multiplo più elevato di quello di acquisizione, e vissero tutti felici e contenti.

Questo, fin quando l’oceano di liquidità delle banche centrali reggeva il gioco. Ora è tutto più complesso. Al punto che i General Partner sono stati costretti a inventarsi un nuovo gioco, che potremmo definire il passaggio del pacco. Creare una nuova società veicolo, che raccoglie nuovi soldi dagli investitori, a cui poi l’azienda preda e predata viene scaricata, con un multiplo ancora elevato. In “letteratura”, ci sono molte definizioni alternative per questo gioco, nato effettivamente per i bimbi e poi finito sul groppone dei risparmiatori.

I più numericamente intuitivi tra voi avranno colto che il tasso interno di rendimento è una sorta di miccia accesa: più tempo attendo a realizzare l’investimento, più quel tasso si deprime. Ecco il perché della necessità di vendere, anche a una entità creata dallo stesso gestore.

I fondi di debito svolgono a loro volta diverse funzioni. Possono servire per sostituire banale credito bancario. In questo caso, il loro destino è legato alle condizioni di salute dell’azienda debitrice. Che, in un tempo di aumenti di costo del denaro, sono messe alla prova. Per quale motivo, quindi, un fondo di private debt dovrebbe fare meglio di uno regolarmente quotato? Solo perché “occhio di investitore non vede (o vede con forte ritardo quello che è accaduto) cuore non duole”?

In altri casi, come quello del cosiddetto credito opportunistico, i fondi intervengono in aziende in condizioni di stress finanziario, quindi facendosi pagare molto il prestito, ritenendo che la ristrutturazione aziendale eventualmente in corso possa rimettere la barca in linea di galleggiamento. Oppure per altri motivi, che non approfondiremo in questa sede.

Non ho alcuna velleità di essere esaustivo, in questa tassonomia. Il messaggio che voglio trasmettere è che non c’è nulla che autorizzi a credere che, in un contesto di stretta monetaria aggressiva, la messe di prodotti alternativi illiquidi sia destinata al lieto fine. Peggio ancora per il venture capital, che finanzia embrioni di idee imprenditoriali, ovviamente. Ma anche private equity e private debt devono allacciarsi le cinture e stringere i denti.

CHE FANNO I FONDI ILLIQUIDI IN UN PORTAFOGLIO “EVOLUTO”

Ora, che posto dovrebbero avere i cosiddetti fondi alternativi illiquidi, nel portafoglio di un investitore evoluto o presunto tale? Ovviamente, ammesso e non concesso che l’investitore abbia ben compreso di che rischi si tratti, e che “evoluto” non coincida con “agiato e quindi gonzo”, deve essere ben chiaro che parliamo di prodotti illiquidi, destinati a permanere in portafoglio per parecchi anni, spesso anche più di dieci.

A meno che sorgano, come già nel mondo degli investitori istituzionali, i cosiddetti fondi “secondari”, che cioè rilevano investimenti illiquidi da investitori che, per svariati motivi, devono liberarsene. E qui, vale la regola del “guai ai vinti”, nel senso che questi fondi comprano a forte sconto, mettendo in carniere ritorni potenziali molto corposi. L’ecosistema funziona, dopo tutto.

Ma, tornando al nostro risparmiatore privato “evoluto” e “affluente”, quello a cui si rivolgono i gestori attraverso interviste patinate su inserti di economia e finanza dei giornali, occorre essere consapevoli di un paio di noiosi principi di vita: i pasti gratis continuano a non esistere; a ritorno potenziale elevato corrisponde rischio potenziale elevato.

Ecco perché, quando leggete interviste ad addetti ai lavori che vi magnificano il private equity e il private debt con motivazioni del tipo “in una fase di incertezza, con rischio di recessione e tassi in rialzo, meglio gli investimenti alternativi, perché sono meno volatili di quelli tradizionali”, ebbene, scappate lontano. Perché la cosiddetta bassa volatilità deriva dal fatto che le valutazioni non sono giornaliere e continue, frutto di scambi ad alta frequenza, ma periodiche, e spesso frutto di stime ottimistiche.

Se la bassa volatilità (magari associata pure ad alto rendimento atteso, in violazione del noto principio di vita di cui sopra), è in realtà frutto di assenza di scambi, c’è qualcosa che proprio non quadra, nel concetto. Solo per augurarvi un anno non dico di prosperità ma almeno di consapevolezza di quello in cui vi trovaste a mettere i vostri soldi. Anche se siete “evoluti” e “affluenti”, e di conseguenza siete il target elettivo di alcune specie predatorie e della loro fame di elevata marginalità. Che non è per voi ma per loro, non scordatelo mai.

Foto di Andy da Pixabay

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