• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > Intercettazioni su operazione Perseo: in nome di Riina

Intercettazioni su operazione Perseo: in nome di Riina

Volevano ricostruire la commissione di Cosa nostra, e litigavano su chi fosse autorizzato dal capo in carcere. Un’operazione macchiata dall’ombra di un suicidio (anticipazione numero di left 52).

L’operazione “Perseo” della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Palermo, scattata nella notte fra il 15 e il 16 dicembre, ha bloccato sul nascere, con quasi cento arresti, il tentativo di ricostruzione della “commissione provinciale” di Cosa nostra, o meglio di una struttura ad interim formata dai rappresentanti dei boss in carcere. Perché, come ha dichiarato a left il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, «i boss in carcere non perdono la carica». Perché il vertice di Cosa nostra, nonostante i tanti arresti, è ancora quello della fase “stragista” del biennio 1992-1993. Totò Riina compreso. Dopo la “seconda guerra di mafia”, agli inizi degli anni Ottanta, la “commissione” mutò fisionomia. Il potere ormai incontrastato dei Corleonesi smontò l’impianto di organo collegiale e “democratico” per essere, invece, dominata da Riina. «Tanto che il collaboratore Tommaso Buscetta - si legge nell’impianto degli inquirenti - nell’aula bunker di Rebibbia, nel noto confronto con il Riina, lo accusava di aver “ucciso Cosa nostra”».

Scorrendo le motivazioni dei mandati di arresto emerge, in particolare, che «questi procedimenti hanno confermato la permanenza di una struttura gerarchica e unificata dell’organizzazione mafiosa e nel loro susseguirsi hanno anche dimostrato da un lato la situazione di crisi, via via accentuata in cui versa oggi Cosa nostra, dall’altro la capacità della medesima di adottare strategie sempre più sofisticate di riorganizzazione» per rilanciare, in pratica, il progetto criminale con ancora maggiore capacità di penetrazione.

Non sono stati solo gli arresti degli ultimi anni a causare questa crisi, organizzativa e in parte identitaria del sodalizio mafioso, ma anche il tentativo di Salvatore Lo Piccolo di prendere in mano i mandamenti del palermitano attraverso una strategia militare che, grazie alla spericolata alleanza con i “fuijti” - gli sconfitti della guerra di mafia degli anni Ottanta - portò, di fatto, al congelamento della commissione provinciale e alla “dittatura” di Riina. Questo dato emerge anche dalla deposizione del 18 dicembre 2008 di Antonino Cinà, il medico e boss mafioso sotto processo insieme all’ex deputato di Forza Italia Giovanni Mercadante. «Mi preoccupai delle possibili conseguenze della vicenda. Temevo una nuova guerra. Ricordavo ciò che era accaduto negli anni Ottanta e quanti lutti c’erano stati. Per questo cercai di fare da paciere, un po’ come l’Onu - racconta ai giudici Cinà sul tentativo dei Lo Piccolo di far rientrare in particolare gli appartenenti alla famiglia Inzerillo -. Più volte cercai di vedere Lo Piccolo, ma lui, all’ultimo minuto, faceva saltare l’appuntamento. Solo una volta la cosa stava per farsi: insieme a Gaspare Pulizzi stavamo per raggiungerlo a Terrasini, ma Pulizzi si accorse che eravamo seguiti e tornammo indietro». Secondo la Dda di Palermo, Salvatore Lo Piccolo fino al momento della sua cattura, con l’appoggio del figlio Sandro, avrebbe «esteso la sua influenza in gran parte della zona occidentale della città, ben al di là del mandamento di Tommaso Natale, e riuscendo a estendere tale potere fino almeno all’importante mandamento di Brancaccio». E i Lo Piccolo si espansero anche grazie alla violenza, come nel caso dell’omicidio del capomafia Giovanni Bonanno, eliminato dalla scena col metodo della lupara bianca. Questo caso rappresenta uno dei punti di frattura più evidenti fra la “commissione in carcere”, ancora investita di tutti i poteri, e i nuovi emergenti “eretici” che volevano riportare in Sicilia chi i Corleonesi di Riina e Leoluca Bagarella considerano tuttora mortali nemici.



Un ruolo decisivo nelle vicende dell’organizzazione in buona parte della città di Palermo lo assume Benedetto Capizzi, l’anziano capo del mandamento di S. Maria di Gesù, tanto da farsi promotore di più riunioni tra esponenti di vertice di diversi mandamenti al fine di avviare la ricostituzione della commissione provinciale di Cosa nostra. Dalle intercettazioni effettuate dai carabinieri negli ultimi mesi, proprio in occasione di questi incontri risulta che Capizzi affermasse di aver ricevuto il consenso, al suo tentativo di riorganizzazione, dal capo commissione in carica, ovvero da Riina in persona, detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Opera vicino Milano. E non solo. Sempre dalle intercettazioni emergerebbe che lo stesso Capizzi avesse avviato l’iniziativa stimolato da uno dei più pericolosi latitanti del vertice stragista di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. L’intervento iniziale di Messina Denaro che, nonostante le sue “competenze” territoriali dovrebbero limitarsi solo alla provincia di Trapani, è ancora più comprensibile visto che, secondo il pentito Antonino Giuffrè, Messina Denaro sarebbe diventato il custode del più importante archivio della mafia siciliana, affidatogli per volontà di Leoluca Bagarella e di Totò Riina. Archivio portato via di tutta fretta dal covo di quest’ultimo (la mancata perquisizione dell’appartamento di via Bernini a Palermo che ha scatenato una tempesta sull’Arma dei carabinieri) in seguito all’arresto di Riina.

Il tentativo di Capizzi era condiviso da una maggioranza di mandamenti, ma osteggiato da altri - in particolare dal potente mandamento di Porta Nuova - orientati verso un modello di tipo “federale” di organizzazione, meno verticistico. È quindi Gaetano Lo Presti, capo mandamento di Porta Nuova, a opporsi al progetto, e ancora di più alla nomina di Capizzi a capo della commissione provinciale, sostenendo che quest’ultimo non gode della necessaria “autorizzazione” dei capi corleonesi detenuti, e in particolare di Riina. In un’intercettazzione del capo del mandamento di Bagheria, Giuseppe Scaduto, dell’11 novembre 2008, emerge tutta la drammaticità dello scontro in atto: «Loro il discorso di Benedetto non lo vogliono accettare perché lui non è autorizzato - afferma il boss -. Gli abbiamo chiesto chi è che lo autorizza e non ci vuole dire niente... A lui chi gliela dà tutta questa responsabilità? Benedetto mi viene a fare questi discorsi… chi lo autorizza Bendetto?». Scaduto non è contrario totalmente al progetto, ma non appoggia la candidatura di Capizzi. E prova a mediare. «Non possiamo fare la commissione. E perché non siamo autorizzati… almeno io non sono autorizzato da nessuno…, facciamo una specie di commissione così, per le cose gravi, per le situazioni più gravi».

Lo Presti, invece, continua ad accusare sostanzialmente Benedetto Capizzi di millantare per quanto riguarda l’autorizzazione di Riina. Anzi, arriva ad affermare di parlare con l’autorizzazione del figlio del capo detenuto, Giuseppe Salvatore Riina, da poco tornato in libertà per decorrenza dei termini. Contemporaneamente Riina junior dichiara alla stampa di voler lasciare la Sicilia e di voler andare a vivere e lavorare vicino Milano. Nessuno ha creduto che questo fosse la reale volontà del rampollo del “capo dei capi”, ma che con questa dichiarazione volesse mandare un messaggio alle famiglie. Un messaggio, all’epoca delle dichiarazioni, difficilmente interpretabile, ma che oggi, alla luce del conflitto fra Lo Presti e Capizzi, assume tutt’altra luce. Un conflitto che però si chiude con il suicidio di Gaetano Lo Presti in carcere immediatamente dopo l’arresto. Stranamente viene lasciato solo e in possesso della cintura dei calzoni che dopo pochi minuti utilizza come cappio. Le motivazioni per cui si toglie la vita sono un mistero. C’è chi ipotizza che si sia spaventato dell’enormità delle prove raccolte a suo carico. Altri invece pensano che fosse lui a “millantare” una relazione con i Riina che invece non aveva e che si sia suicidato per evitare una vendetta “trasversale” che colpisse i suoi parenti. In ogni caso, su questo suicidio è necessario fare luce, perché è una morte che getta un’ombra sull’intera operazione “Perseo”, facendo riaffiorare sospetti che sembravano essere stati cancellati da anni di successi. 

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares