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India, caccia ad Ali

E’ stato postato su Istagram, sebbene sia stato rimosso il giorno dopo, un video “faidate” che mostra un adolescente pro Hindutva (la dottrina fondamentalista e razzista sostenuta dagli estremisti hindu) che attacca un bambino musulmano e gli usa violenza.

 La colpa di quest’ultimo era quella d’essere spinto dalla sete a entrare in un’area per bere. La zona è interdetta agli islamici poiché lì sorge un tempio hindu, nonostante il distretto sia altamente popolato da musulmani. Così i militanti dell’hindutva, pur giovani come l’assalitore, attuano severi pattugliamenti e conseguenti “punizioni corporali”. Il filmato mostrava la gragnuola di colpi con cui il bambino dallo sguardo smarrito – sicuramente non aveva letto il cartello che metteva in guardia i trasgressori – veniva sottoposto alla punizione. Nelle truculente immagini l’aggressore colpiva con calci e pugni le parti intime del corpicino, commentando: ”un musulmano è stato neutralizzato”. Un’altra scena mostrava sempre l’orgoglioso picchiatore agitare un coltello davanti al volto d’un altro bambino, apostrofato come “infiltrato balgladeshi”. Il senso d’impunità dei gesti mette l’autore in primo piano: lui si fa riprendere da un compare, mostra il volto, pubblica la bravata sul social media.

C’è voluta una semi rivolta di fruitori di Istagram della nazione indiana per denunciare il fatto alla polizia di Ghaziabad, nell’Uttar Pradesh, far cancellare quell’azione usata come propaganda e monito, far arrestare l’autore. La violenza e la sua promozione sui social rappresentano episodi tutt’altro che isolati. I fondamentalisti hindu creano a ciclo continuo account come quello ora cancellato - @HinduEktaSanghh - per incitare “un bagno di sangue di nemici musulmani”. I deliri seguono una perversa spirale violenta che invoca pire per islamici vivi, da far crepare nella maniera più cruda. Però tali richiami a un astio sordido hanno sponde ben più strutturate di quelle delle giovani reclute. Le prediche islamofobe di Yati Narsinghanand Saraswati, leader dell’hindutva proprio a Ghaziabad, oltreché sacerdote del tempio hindu dove avvengono le aggressioni descritte, e interventi altrettanto focosi di politici come Kapil Mishra, esponente di spicco del Bharatiya Janata Party, rappresentano l’humus su cui si coltiva l’odio razzial-confessionale nell’India di Modi. Già in molte circostanze e per svariati interventi Narsinghanand è stato etichettato quale predicatore dell’odio. Un anno fa reportage di alcuni quotidiani del Paese lo ricordavano, durante i violentissimi scontri fra hindu e musulmani, come il teorizzatore del “genocidio contro gli islamici”. Parole e pensieri che non ha mai smentito.

Il bello è che il guru hindu gode della platea televisiva, un po’ come taluni odiatori occidentali dell’Unione Europea e degli Stati Uniti che non si chiamano solo Orbán e Trump. Così Sudarshan Tv, News Nation e altri media prestano microfoni e telecamere al faccione all’apparenza pacioso di Yati che, nonostante si dipinga come un tranquillo sacerdote, schiuma un’incontenibile rancore per quella minoranza indiana che conta quasi 300 milioni di anime. Poi ci sono i suoi social (Voice of Narsinghanand) su Youtube in cui riassume la sua suprema missione: “la soppressione dell’Islam” e qui la frangia più militarizzata dell’hindutva va in delirio orgiastico e omicida. Insomma il guru del tempio è una vera bomba socio-politico-confessionale che vellica i già incendiari pruriti dei suoi fan, innescando risposte estremiste dell’altra sponda dove il fondamentalismo islamico è sempre in cerca di adepti. Suo anche il delirio di “jihad demografica” con cui accusa la comunità islamica di attentare all’integrità della nazione indiana, che secondo la propria visione è esclusivamente hindu, attraverso la prolificità delle donne musulmane.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

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