Il senso del Senato per la Rete
C’è il senatore (Butti, Pdl) che sostiene che «in Rete è il Far West, tutto è lecito, tutto è consentito», e che dunque «prima o poi, come legislatori responsabili, dovremo occuparci anche di questo». Perché «a nessuno può essere consentito di fraintendere una giusta e sacrosanta libertà di espressione, di giudizio e di opinione con una pericolosa licenza sfrenata». C’è la collega (Casellati, sempre Pdl), che ne trae la conseguenza logica: «la diffamazione oggi si [fa] quasi meglio senza carta che a mezzo stampa, magari nei blog».
C’è Maritati, Pd, che dice l’opposto di Vita, Pd: «Se esiste una diffamazione sulla Rete, chiedo al collega Vita e a tutti quelli che condividono il suo punto di vista, di spiegare com’è possibile interromperla, nel momento in cui l’invito a cancellare o a togliere dalla Rete le immagini oltraggiose e diffamatorie o lo scritto diffamatorio non viene accettato. Qual è l’alternativa? Il senatore Vita dice che la Rete non ha un nome. E’ proprio per questo che il cittadino è scoperto. A chi si deve rivolgere, dunque, nel momento in cui ha chiesto di correggere o eliminare lo scritto o l’immagine offensiva?». A fine intervento, il resoconto stenografico sul sito del Senato registra gli applausi del gruppo del Pdl.
Finiti i sostenitori dell’identità Internet-anarchia, arrivano i realisti. Su tutti, Pardi (Idv). Che a «misure che rischiano di esercitare un’azione censoria», preferisce «il male minore»: «Essendo per una certa parte la Rete uno sfogatoio psicanalitico ed essendone l’utilizzatore consapevole, quando vi si trovano delle esagerazioni offensive penso che il fruitore abituale sappia che si tratta di una cosa su cui si può esercitare una sorta di critica individuale spontanea, senza bisogno della sanzione giuridica». Insomma, non servono norme perché tanto quello che scriviamo su Internet è una sorta di seduta psicoterapeutica ininterrotta, un flusso d’incoscienza che tuttavia è sufficiente per «mettere in un certo senso anche alla berlina esagerazioni, retoriche, offese a singole persone o a gruppi». Datemi una Rete, e vi farò sfogare e rettificare il falso allo stesso tempo. Magia.
Ci sono i negazionisti (Caruso, Pdl: «il Senato non si sta occupando di blog e di ‘cinguettii’») e gli stupiti (Castelli, Lega Nord: «Oggi, la diabolicità del sistema Internet è che quella notizia resta per sempre»). Quelli che non vogliono leggi, ma solo perché ne servono di più specifiche (Vimercati, Pd). E gli incomprensibili incompresi. Nella categoria, Bruno (Terzo Polo) e Finocchiaro (Pd). Il primo:
«Uno degli emendamenti da me presentati è di sostanza e l’avevo già presentato in Commissione. Esso riguarda la questione del web, sulla quale continuo ad essere del parere che non bisogna intervenire con superficialità. Poiché l’emendamento 1.401 interviene in caso di ‘rettifica a notizia pubblicata in un archivio digitale’, mi sembra si possa approvare. E' abbastanza semplice. Se una notizia viene pubblicata nell’archivio digitale di un quotidiano o di un periodico accessibile al pubblico, il gestore dell’archivio – è tecnicamente fattibile in maniera abbastanza semplice –può predisporre un sistema idoneo a segnalare con evidenza e facilità, a chi accede alla notizia originaria, l’esistenza dell’integrazione o dell’aggiornamento».
La seconda:
«L’emendamento 1.507 prevede il coinvolgimento dei link telematici nella disciplina sulla rettifica, arricchendo in tal modo la previsione normativa in materia già esistente nel testo al comma 5 del nuovo testo che il disegno di legge propone dell’articolo 8 della legge n. 47 del 1948. Deve quindi essere limitato ai link e inserito, con un termine congruo per la rettifica, come comma aggiuntivo al comma 5».
Nel mezzo, in una confusione per cui viene prima approvato un emendamento che limita la normativa riguardante il web nella ‘salva-Sallusti’ (di questo si parla) ai siti dei quotidiani cartacei, poi a tutti i «prodotti editoriali diffusi per via telematica, con periodicità regolare e contraddistinti da una testata» (I blog ne fanno parte?, si chiede qualcuno. E Wikipedia, che nel frattempo ha già iniziato a protestare?); in cui c’è l’accordo e poi, a pause prima di trenta minuti, poi di una nottata, poi di un fine settimana, non c’è più – in mezzo a tutto questo c’è la nostra libertà di informazione, messa a repentaglio non tanto o non solo da questa specifica normativa, ma anche e soprattutto dall’atteggiamento di fondo con cui viene affrontata da buona parte dei nostri senatori.
Non con la curiosità intellettuale, l’umiltà, la passione con cui ci si accinge ad affrontare una parte del mondo che prima non c’era e che ancora dobbiamo tutti comprendere, ma con l’astio, la supponenza e l’arroganza di chi pretende di ridurla a una realtà vecchia sessant’anni e più (la legge sulla stampa è del 1948). E di cogliere l’opportunità di togliersi qualche sassolino, messo da giornalisti che non vanno a genio, dalla propria scarpa.
Alcuni amici hanno organizzato un flash mob, alzato la voce, gridato l’allarme. E’ un modo di sensibilizzare l’opinione pubblica, ma che costringe a ridurre questioni complesse a slogan: non fa al caso mio. E poi c’è un’intera impostazione culturale da combattere, non questa o quella norma. Credo che per coglierla appieno, più che andare in piazza, sia utile seguire un paio di sedute in Aula, passare un po’ di tempo tra i resoconti stenografici di Camera e Senato. E’ quello, che stiamo consegnando alla storia. Ed è tempo, appunto, che venga consegnato alla storia.
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