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Il rigore fiscale e la riforma del lavoro non sono sufficienti per superare la crisi

L’attuazione di una politica fiscale fortemente restrittiva, la stessa riforma del mercato del lavoro, contraddistinta tra l’altro dalla volontà di modificare l’articolo 18, vengono considerati dal governo italiano e da molti economisti anche come strumenti che nel breve periodo possono esercitare effetti positivi sulla crescita economica.

Una parte, minoritaria, degli economisti italiani la pensa diversamente. Le loro opinioni possono essere esaminate leggendo una lettera aperta sulla crisi dell’Europa, promossa dal Forum della Cgil sull’economia, indirizzata alle istituzioni dell’Unione europea ed anche al governo italiano. La lettera inizia in questo modo:

“Nel quinto anno della crisi globale più grave da quella del 1929, una drammatica prospettiva di recessione incombe sull’Europa mettendone a rischio non solo l’Euro ma anche il modello sociale e l’ideale della ‘piena e buona occupazione’, pur sancito in tutte le strategie europee, a partire dall’Agenda di Lisbona. È proprio nel Vecchio Continente infatti che si stanno ostinatamente portando avanti politiche economiche fortemente depressive che minacciano un aumento della disoccupazione, specialmente giovanile e femminile”.

E così continua

“Eppure, si è scelta la linea dell’austerità, del rigore di bilancio – a cominciare dal Patto di Stabilità e Crescita, passando per il Patto Euro Plus, per arrivare all’attuale ‘Fiscal Compact’ – con l’idea di contrarre il perimetro statale continuando a sperare che i privati aumentino investimenti e consumi, sulla base della fiducia indotta dalle immissioni di liquidità nel circuito bancario, a sua volta ‘sollecitato’ ad acquistare titoli di stato europei. Si è, dunque, deliberatamente optato per la non-correzione delle distorsioni strutturali di un modello di sviluppo economico basato sui consumi individuali, sull’ipertrofia della finanza, sul sovrautilizzo delle risorse naturali e sull’indebitamento, in contraddizione con il modello sociale europeo. Si è nuovamente scelta una politica monetarista e liberista. Si è pensato di contrarre i deficit pubblici – e con essi spesa e investimenti pubblici – per ridurre il ricorso all’indebitamento, nel tentativo di arginare gli attacchi speculativi sui debiti sovrani, sperando così di salvare l’Euro e i precari equilibri economici tra gli Stati Membri. Ma non sta funzionando, perché non può funzionare”.

Quale politica alternativa viene proposta?

“Non basta scommettere sulle aspettative dei mercati finanziari, degli investitori privati, delle banche, dei consumatori. Non è sufficiente puntare sulla ‘credibilità’ dei governi. In Europa, ne sono cambiati ben cinque in 18 mesi (Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia), addirittura con due governi tecnici sostenuti da larghe maggioranze. La ‘crisi dei governi nazionali’ è solo una delle tre crisi che si sovrappongono: restano da affrontare la ‘crisi delle economie nazionali’ e la ‘crisi dell’economia sovranazionale’. Solo così, peraltro, si possono risolvere le debolezze strutturali delle democrazie nazionali piegate dagli interessi economico-finanziari costituiti”.

Quale natura ha la crisi secondo gli estensori della lettera?

“Questa è una crisi di modello e occorre una riforma del modello per ritrovare la ripresa. Bisogna assumere uno sguardo più vasto, una prospettiva di lungo periodo. Nemmeno i paesi europei in avanzo commerciale, nei prossimi anni, potranno contare su una ‘locomotiva’ americana o cinese, tanto meno sulla capacità di assorbimento degli altri paesi europei. Anzi, proprio la divergenza competitiva dei Paesi dell’Area Euro impedisce la risoluzione della crisi. Inutile spostare la svalutazione competitiva dalla moneta ai costi della produzione e, più precisamente, al costo del lavoro. Inutile ridurre le pensioni, i beni collettivi e lo stato sociale. Questa è una crisi di domanda. La lezione che viene dalla crisi è chiara”.

Qual è il principale “nodo” che si manifesta nel nostro Continente?

“Il nodo che oggi si pone in Europa sta nel decidere se il riequilibrio inevitabile avverrà attraverso la ‘depressione’ (con una ricaduta regressiva e democraticamente pericolosa) oppure con lungimiranti scelte di cooperazione, rilanciando l’originaria ‘spinta’ europeista, evitando che i paesi in disavanzo non intervengano sui propri squilibri e, allo stesso tempo, che i paesi che hanno approfittato dell’Euro (comela Germania) accumulino surplus invece di svolgere la funzione di locomotiva a cui sono tenuti in un contesto di moneta unica”.

Cosa fare quindi?

“In questo quadro, le iniziative dei governi nazionali, comprese quelle del governo dei tecnici in Italia, non sono in grado di scongiurare il rischio di default finanziario di alcuni Paesi, rischio aggravato dall’effetto depressivo delle politiche europee e delle conseguenti politiche degli stessi governi. Abbiamo bisogno di nuova crescita economica ma questa non può che essere una crescita ‘nuova’, anche in direzione di un’economia della conoscenza e di un’economia sostenibile in termini ambientali, distributivi e sociali. Oggi più che mai ‘cosa produrre’ è importante almeno quanto ‘come produrre’. Ci vuole un nuovo modello in cui lo Stato e le istituzioni sovranazionali orientino i risparmi, gli investimenti e lo sviluppo. È necessario dunque un programma di riforme appoggiato sui lineamenti di una nuova politica economica, ispirata da una nuova idea di sostenibilità di lungo periodo, economica, sociale, ambientale e intergenerazionale, fondata, in primo luogo, su investimenti e consumi collettivi”.

Ed occorre ripartire dal lavoro.

“Bisogna realizzare piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti – a partire da quelli verdi, infrastrutturali, ad alta intensità tecnologica e di conoscenza – finanziati con una tassazione ad hoc e anche in disavanzo, se necessario, tenendo insieme domanda e offerta. In altre parole: ‘socializzare gli investimenti e l’occupazione’ per riqualificare l’offerta e aumentarne la produttività, sostenendo la domanda e, al tempo stesso, contenendo l’inflazione e il rapporto debito/PIL nel medio-lungo periodo. La capacità dello Stato di elaborare strategie di investimento per realizzare questi obbiettivi può essere una leva anche per la mobilitazione del risparmio privato. L’imprescindibile disciplina di bilancio, in ragione del consolidamento strutturale nel lungo periodo, va realizzata in modo lungimirante ma coerente con la scelta della via alta della competitività, della ricerca della piena occupazione e della qualità delle produzioni, con l’aiuto e lo stimolo dell’intervento pubblico, coordinato a livello europeo”.

L’Europa deve di nuovo porsi l’obiettivo della piena occupazione

“È necessario inoltre includere tra i parametri un obbiettivo di crescita e un obbiettivo occupazionale perché l’Europa deve tornare a porsi la finalità della piena occupazione. Bisognerebbe, appunto, partire dalla crescita e non dalla stabilità, per regolare su di essa la politica macroeconomica, definendo poi il tasso di inflazione e il livello dei deficit pubblici accettabili in una determinata fase, articolando il tutto tra i vari paesi dell’Unione anche con l’obbiettivo di ridurne le divergenze di competitività”.

Devono essere previsti anche interventi relativi al sistema finanziario

“Queste sono le prerogative per l’avvio di una vera unificazione fiscale, distinguendo il ‘debito buono’ dal ‘debito cattivo’ come condizione per politiche di sviluppo di dimensione europea, stimolando la definanziarizzazione delle economie avanzate e il controllo dei movimenti di capitale (cominciando con la separazione delle banche commerciali e da quelle di investimento e con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali che può servire a limitare la libertà di movimento speculativo dei capitali) in funzione delle prospettive dell’economia reale, riaprendo così una prospettiva di futuro per le nuove generazioni”.

Io condivido gran parte dei contenuti della lettera. Tra gli estensori più noti possono essere citati Roberto Artoni, Salvatore Biasco, Paolo Bosi, Nicola Cacace, Maurizio Franzini, Andrea Ginzubrg, Claudio Gnesutta, Paolo Leon, Ruggero Paladini, Laura Pennacchi, Giorgio Ruffolo, Vincenzo Visco. Non sono dei pericolosi estremisti. Molti di loro possono essere definiti dei “semplici keynesiani. Ma i contenuti della loro lettera possono apparire “rivoluzionari”. In realtà non lo sono. Quanto sostengono, invece, a me sembra anche il frutto di considerazioni di buon senso. E almeno il governo italiano farebbe bene a non trascurarle.

Chi intendesse leggere integralmente la lettera può trovarla qui

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