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Il modello tedesco è in crisi?

In un commento sul Financial Times, il presidente del Peterson Institute for International Economics ed ex membro del comitato di politica monetaria della Bank of England, Adam Posenelenca tutte le vulnerabilità del “modello” di sviluppo tedesco, che paiono riconducibili soprattutto a quella che viene definita l’ossessione per le esportazioni. “Se il modello economico tedesco è il futuro dell’Europa, dobbiamo essere tutti molto inquieti”, è la sintesi.

Secondo Posen, nell’ultima dozzina di anni il taglio del costo del lavoro è stato alla base del successo dell’export tedesco, a sua volta unico motore di crescita economica del paese. La riduzione di disoccupazione, secondo Posen, è frutto dell’introduzione di forme contrattuali flessibili e precarie, senza le protezioni concesse alle generazioni precedenti. Un passaggio su tutti:

«La Germania ha ora la più elevata proporzione di lavoratori a basso salario rispetto al reddito nazionale mediano in Europa Occidentale. I salari medi sono aumentati più di inflazione e crescita della produttività lo scorso anno, per la prima volta dopo oltre un decennio di stagnazione»

Altra vulnerabilità strutturale tedesca, secondo Posen, è l’andamento cedente degli investimenti, passati dal 1991 ad oggi dal 24 al 18% del Pil, sotto la media del G7. Carente anche lo sviluppo delle infrastrutture pubbliche e la quota di giovani tedeschi dotati di istruzione superiore, sempre in rapporto alla media del G7. Il risultato, che va contro i luoghi comuni, è che la Germania manifesta una crescita della produttività non particolarmente robusta. Ancora Posen:

«Il risultato è che la crescita della produttività tedesca è stata bassa, comparata ai concorrenti. La crescita del Pil per ora lavorata è del 25% inferiore alla media Ocse, sia che si vada indietro a metà anni Novanta o che si guardi all’ultimo decennio, e che si escludano o meno gli anni della bolla negli Usa e nel Regno Unito. Con questi numeri di produttività non desta meraviglia che le aziende tedesche competano solo riducendo i salari relativi e spostando produzione ad Est». 

Secondo Posen, inoltre, non esiste alcun eccezionalismo tedesco in manifattura: il settore è in restringimento come accade praticamente ovunque, e le ragioni di scambio manifatturiere, misurate dagli anni Novanta, mostrano Germania e Stati Uniti praticamente allineati.

La conclusione di Posen è lapidaria:

«La dipendenza dalla domanda esterna ha privato i lavoratori tedeschi di ciò che essi hanno guadagnato, e che dovrebbero essere in grado di risparmiare e di spendere. Ciò li lascia dipendenti dalle esportazioni per la crescita, in un ciclo che si auto-rinforza. Cosa più importante, ciò significa muoversi all’ingiù in termini relativi nella catena del valore, non all’insù. Il perseguimento della stessa policy da parte dei partner commerciali europei della Germania è destinato a rinforzare quelle pressioni. La compressione salariale non sarà una strategia di crescita di successo per il futuro della Germania o dell’Europa»

Sono considerazioni molto dure, che sovvertono la tradizionale immagine di incontrovertibile successo del modello tedesco. Attendiamo voci dissonanti da quella di Posen ed un allargamento di questo dibattito. La percezione resta tuttavia immutata: la Germania è in Europa e ci resterà, con tutto quello che ne consegue.

Ciò significa avere dei seri problemi di crescita di lungo periodo, date le condizioni strutturali del continente. La Germania non è diventata il Vietnam d’Europa, ovviamente, e l’asserita focalizzazione sul costo del lavoro a scapito di sviluppo tecnologico ed infrastrutture pubbliche (inclusa quella in istruzione e formazione superiore) va intesa in senso relativo, non certo assoluto. A ciò si può, in caso, anche sommare la “fisiologica” idiosincrasia della cultura economica anglosassone rispetto a quella “renana” (giusto per recuperare i soliti frusti luoghi comuni), ma certo le obiezioni di Posen andranno affrontate, numeri alla mano. Sarebbe utile che fosse l’elettorato tedesco il primo ad affrontarle.

 

Foto: Martin Ablegen/Flickr

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