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Il “miracolo” portoghese, analizzato

Su Ft Alphavilleun’esaustiva analisi del “boom” che l’economia portoghese sta vivendo, l’antefatto del periodo di incubazione della crisi, i presumibili cambiamenti strutturali dell’economia del paese dal 2013 e le criticità prospettiche, tra cui ne svetta una: la fine dell’easing quantitativo della Bce, con interessanti ma circoscritte analogie con la situazione italiana.

Quello che balza all’occhio, in questi anni di post-crisi sono le metriche occupazionali portoghesi, definite nel commento “più tedesche che spagnole”. In effetti, il tasso di occupazione per la coorte 15-64 anni è schizzato di quasi 10 punti percentuali, dal 59,7% del primo trimestre 2013, il nadir della crisi, al 68,3% del terzo trimestre 2017 (fonte: Eurostat), ed ancora meglio è andata per la cosiddetta fascia prime age compresa tra 25 e 54 anni, passata da 73,8% a 83%.

Dietro a questo vero e proprio boom occupazionale, che molti nostri connazionali da qualche tempo brandiscono come un modello da imitare (uno dei tanti, c’è solo l’imbarazzo della scelta, ormai, per il nostro provincialismo malato), c’è la spinta della demografia, sotto le spoglie dell’emigrazione: dal 2008 al 2016, circa 340.000 persone hanno lasciato il Portogallo, e circa 220.000 sono arrivate, con una perdita media di 120.000 unità. Se limitiamo il dato ai cittadini portoghesi, la fuoriuscita netta dal 2008 al 2016 è di circa 200.000 persone. Oltre il 4% della popolazione attiva. Per contro, nel periodo 1999-2007, l’immigrazione netta ha spinto popolazione e forza lavoro portoghese di circa 313.000 persone.

E infatti, nell’economia portoghese c’è ancora un buco di ore lavorate di circa il 7% rispetto al 2007. Ricorda qualche paese mediterraneo?

Ma occorre riconoscere che l’economia del paese ha davvero recuperato, e molto, dopo il sudden stop che ha posto fine ad anni di boom dei consumi ed immobiliare, quelli di convergenza all’euro, con crollo dei tassi reali, e dopo che questo arresto improvviso ha riempito le banche di sofferenze. Ma le banche portoghesi, oltre che di sofferenze, erano e sono piene di titoli di stato domestici (anche qui, ricorda qualcuno?), e la crisi ha portato ad un credit crunch molto violento, come si evince da un paper di ricerca della banca centrale di Lisbona:

«Le aziende i cui prestatori dipendono maggiormente dal finanziamento ottenuto sui mercati finanziari ed interbancari presentano minori investimenti dopo il 2009, in confronto con gli anni precedenti. In media, una deviazione standard in aumento di finanziamento interbancario conduce a circa 0,7 punti percentuali di calo aggiuntivo nell’investimento delle imprese dopo lo scoppio della crisi»

Date queste premesse, il QE della Bce non poteva che rivelarsi un balsamo, e porre temporaneamente in secondo piano la criticità di banche ancora zeppe di sofferenze. La domanda sorge spontanea, quindi: che accadrà quando il QE terminerà? Ah, saperlo. Sappiamo anche che la ripresa portoghese è figlia dell’export, che a sua volta ha indotto maggiori investimenti, e quindi maggiori consumi.

Di solito, si tende ad attribuire il merito del boom di export portoghese al turismo, ed in effetti tra il 2008 ed il 2017 l’export turistico netto è passato da 6 a 14 miliardi di euro. Ma c’è anche una componente manifatturiera, a contribuire in modo molto rilevante, con una crescita del 40% tra il 2008 ed il 2017. E qui la lettura di Alphaville è che si tratti del fatto che il Portogallo è entrato nelle catene del valore dell’industria automobilistica spagnola, e da lì deriverebbe buona parte della ripresa, soprattutto degli investimenti. Anche qui, chiave lettura molto stimolante. Meno muratori, più tute blu, per quelli che si nutrono di slogan.

Questa è la sintesi estrema, che ci consegna un paese in salute, con conti pubblici quasi in pareggio, e consumi ed investimenti in tonica ripresa. Ma le minacce pendenti sul futuro non mancano: prima fra tutte, lo stato del sistema bancario portoghese e la sua evoluzione quando la bomba di glucosio della Bce sarà venuta meno. Come sempre, forse è meglio sfruttare i giorni di sole per riparare il tetto, diceva qualcuno, prima di essere duramente contestato dagli editorialisti di sistema italiani.

In sintesi, quanto è esportabile la cosiddetta ricetta vincente portoghese, ammesso che sia davvero tale? Se siete italiani, quindi affetti da provincialismo terminale, e soprattutto se siete de sinistra, direte “moltissimo, facciamo come il Portogallo!”. Se invece siete soggetti senzienti, di quelli che evitano di confondere correlazioni con cause, potrete giungere alla conclusione che il successo portoghese è e resta portoghese, e si alimenta in parte di aree grigie come la forte emigrazione netta, ed effetti transitori come l’azione della Bce. Di certo, se il paese è entrato in modo rilevante nelle catene di fornitura spagnole, lo si deve anche alla forte riduzione del costo del lavoro indotta dalla crisi. Lo stesso vale per gli spagnoli rispetto alle catene del valore manifatturiero europeo, ed alle conseguenti scelte di localizzazione.

Per il prossimo proiettile d’argento, c’è solo da attendere.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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