Il magico mondo sommerso del welfare italiano
Il welfare scandinavo del paese posto tra Medio Oriente e Sud America pesa sempre più su quanti sono rimasti intrappolati nell'Irpef. E l'ISEE è parte del problema. Quanto manca al collasso finale?
Sul Foglio del 28 agosto compare un articolo scritto da Alberto Brambilla e Claudio Negro, del Centro Studi itinerari previdenziali, che da tempo segnala le crescenti distorsioni del nostro sistema previdenziale e di welfare. Il commento verte su quello che viene definito “intreccio perverso tra assistenzialismo e lavoro nero”.
Il punto: in Italia, come sappiamo,
[…] chi dichiara sopra i 35 mila lordi annui è solo il 15 per cento della popolazione, mentre il 65 per cento dichiara fino a un massimo di 25/26 mila euro, con un 42 per cento circa di popolazione che paga in media meno di 300 euro di Irpef l’anno (la sola spesa pro capite sanitaria è di oltre 2.200 euro l’anno e per garantire a questa quasi metà di popolazione la sola sanità il restante 35 per cento deve mettere sul piatto 60 miliardi l’anno, poi c’è tutto il resto).
So che ci sono non poche anime belle che di fronte a questo dato levano il ditino progressista segnalando che, in un sistema fiscale progressivo, questo è quanto ci si attende accada. Le cose non stanno esattamente in questi termini, soprattutto osservando che l’Irpef, l’imposta che dovrebbe essere architrave del sistema, è ormai la trappola mortale di un numero decrescente di persone, per lo più dipendenti a reddito “elevato” (i famosi kulaki, come da mia definizione).
Per tutto il resto, c’è un welfare scandinavo in un paese a metà strada tra Medio Oriente e Sudamerica, con gli autonomi che si godono la loro flat tax fino a 85 mila euro lordi annui di reddito (“eh, ma non possiamo scaricare nulla, mica come in America”, gemono i tapini), che la Lega vorrebbe portare a 100 mila.
La linea della palma e della no tax area
Valori che in nessun caso possono essere considerati quelli di un paese del G7 quanto di un paese in via di sottosviluppo. La no tax area avanza, come la linea della palma di Sciascia e la desertificazione climatica ed economica, al punto che (secondo l’articolo) il 42 per cento della popolazione paga 300 euro annui di Irpef, mentre la sola spesa sanitaria pro capite è a 2.200 euro annui.
Brambilla e Negro lamentano l’eccessiva generosità degli strumenti di welfare a sostegno del reddito, e soprattutto la loro durata. La Naspi, la vecchia disoccupazione, spetta a chi è vittima di disoccupazione involontaria, e negli ultimi quattro anni ha pagato almeno tredici settimane di contributi. Pagata per un periodo pari alla metà del tempo lavorato per un importo mensile pari all’imponibile previdenziale degli ultimi quattro anni e pari al 75 per cento di un massimo di 1.352,19 euro mensili. A cui si aggiunge il 25 per cento della differenza tra la retribuzione effettiva e questa soglia. Durante la Naspi, lo stato paga figurativamente anche i contributi pensionistici.
Finita la Naspi, in caso si fosse ancora disoccupati, si può chiedere l’assegno di inclusione (Adi) per altri 18 mesi, con integrazioni varie.
C’è un passaggio dell’articolo che non riesco a comprendere. Abbiamo detto che la Naspi è un sussidio per disoccupazione involontaria. Nel senso che, se mi dimetto per mia volontà, non la prendo. Non mi è quindi chiaro questo passaggio:
Il punto è che questa possibilità si può esercitare quante volte si vuole; lavoro due anni e faccio l’anno sabbatico di un anno, poi lavoro ancora due anni e mi faccio un altro anno sabbatico e così via.
Se vengo licenziato, non si tratta di mia scelta. A meno, e questo potrebbe essere il sottinteso, di trovarsi di fronte a uno scandalo epocale (uno dei tanti), dove i datori di lavoro licenziano il soggetto e costui continua lo stesso lavoro in nero. Ho dei dubbi che ciò accada e l’articolo non porta alcuna evidenza in merito. Quindi, attenzione a non lanciare ami populisti che finiscono col mandare in malora tesi altrimenti meritevoli di attenzione.
Il segreto del loro successo
Ma, in questo tripudio di assistenza, c’è spazio anche per altre due categorie di beneficiati:
E poi c’è la dolente nota dei lavoratori stagionali soprattutto nel turismo (balneazione, ristorazione e servizi); sono tantissimi e da oltre 40 anni lavorano 6/8 mesi per ogni anno e a fine stagione anziché cercarsi un posto di lavoro regolare, chiedono la Naspi e per i restanti 4 mesi; restano a carico dello stato e questo vale per l’intera vita lavorativa. Lo sanno tutti che in questi mesi gli stagionali fanno lavori in nero per non perdere la Naspi, eppure si prosegue così come per la disoccupazione agricola di cui beneficiano tutti i lavoratori agricoli che hanno 102 contributi giornalieri nel biennio (51 giornate l’anno) tra l’anno di richiesta e l’anno precedente, compresi i contributi figurativi e che per i restanti mesi (tanti) ricevono il 40 per cento circa del massimale Naspi e per il resto lavorano in nero e ciò può durare per l’intera vita lavorativa.
Come si nota, le punte di diamante della nostra imprenditoria scaricano sulla collettività (o meglio, su quanti sono ancora costretti a pagare tutta l’Irpef) buona parte del loro travolgente successo. I lavoratori di questi settori poi si ritrovano con assegni pensionistici da fame, piangono perché si trovano costretti ad attingere ai risparmi di una vita fatti col nero (se ancora ne hanno e non li hanno già spesi), e di conseguenza occorre integrare le loro pensioni da terzo mondo, perché altrimenti la nostra coscienza viene presa a morsi. Quelli della fame di questi sventurati soggetti.
Giusto di passaggio, mi auguro che anche i meno intuitivi tra voi abbiano colto che, con queste condizioni, chiedere di separare previdenza e assistenza per dimostrare che la prima è “in equilibrio” indica una via di mezzo tra furbizia treccartara e stupidità conclamata.
Si dice che questi istituti assistenziali (Naspi, Adi ecc.) servono perché nel paese non ci sono opportunità di lavoro, e di conseguenza il rischio di disoccupazione di lungo termine è altissimo. Può darsi: a giudicare dai dati di occupazione degli ultimi anni non si direbbe. Quello che appare evidente è che stiamo divorando il bilancio pubblico con sussidi di welfare che sono un magnete per il sommerso. E a pagare per questi incentivi perversi sono sempre i soliti, in numero sempre più ridotto.
“Non ci hai detto che faresti tu, fenomeno”, diranno i più intuitivi tra i miei lettori. Non ho idee forti se non qualche principio: contrastare gli incentivi al sommerso, e questi lo sono; ridefinire l’allocazione delle risorse cambiando l’ISEE. Nel senso di aumentare drasticamente il peso del patrimonio rispetto a quello del reddito. Risolutivo? No, però aiuterebbe a scoprire un mondo incantato e sommerso, quello costruito con redditi in nero. Come dite? Una parte di quel patrimonio rischia di essere illiquido? E chi se ne frega: esiste un prezzo per ogni asset, trovatelo e non provate ad equipararvi a chi manco ha quello.
Questo articolo è stato pubblicato quiCommenti all'articolo
Lasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox