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Il governo Meloni e il ritorno della politica

Il governo Meloni è realtà e l’ascesa dell’onorevole romana figlia della destra sociale diventata conservatrice da militante tra Colle Oppio e la Garbatella ha raggiunto il suo obiettivo definitivo. 

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Con il passaggio di consegne tra Mario Draghi e la Meloni la questione più importante da analizzare è quella del pieno ritorno della politica. E sarà un tema che potrà essere, se ben gestito, salutare per il sistema-Paese.

Intendiamoci: non si è mai creduto, da queste parti, al potere impolitico della tecnica. E ben presente era la concezione di una natura profondamente connotata dell’esecutivo “tecnopolitico” di Draghi. Ma le elezioni del 25 settembre scorso hanno segnato uno spartiacque e l’Italia ora può e deve guardare oltre l’unità nazionale già logoratasi ben prima della caduta estiva di Draghi, oltre il sistema emergenziale che guida la politica del Paese dall’inizio del Covid-19, oltre la sospensione di molte prassi che l’anomala maggioranza del 90% di Draghi in Parlamento aveva, seppur involontariamente contribuito a sviluppare.

La Meloni “ripoliticizza” con figure partitiche i ministeri chiave per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e quelli principali di spesa, blindando poi con Guido Crosetto alla Difesa un dicastero chiave per i rapporti con il sistema atlantico e non marcando una totale discontinuità col passato promuovendo Giancarlo Giorgetti al Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Forte anche la politicizzazione dei nomi. La trasformazione dello Sviluppo Economico in Ministero delle Imprese e del Made in Italy e l’aggiunta di suffissi connotanti (“Merito” all’Istruzione, “Sovranità Alimentare” all’Agricoltura, “Natalità” alla Famiglia) ad altri dicasteri mostrano una chiara linea politica che media tra le istanze della destra sociale, quelle conservatrici e le venature sovraniste della coalizione di centro-destra.

Stessa cosa per la Transizione Ecologica, che diventa Ministero dell’Ambiente e della Sovranità Energetica, a denotare una scelta di campo in cui si prevede una svolta su estrazione nazionale di gas, investimenti strategici, nucleare.

Infine, dopo Giuseppe Conte e Mario Draghi, ascende a Palazzo Chigi un presidente del Consiglio che non si può non definire cresciuto a pane e politica nel periodo seguito alla caduta della Prima Repubblica. E questa – con la sola eccezione forse di Matteo Renzi – è una grande novità nella Seconda Repubblica ove la premiership è stata appannaggio di figure come Silvio Berlusconi, asceso alla politica dall’impresa e dai media, ex boiardi di Stato come Romano Prodi, figli di una generazione precedente come Giuliano Amato e Massimo D’Alema, uomini nati nelle professioni e nell’accademia come Conte, indipendenti “senior” come Draghi, Lamberto Dini e Mario Monti o rampolli di dinastie politiche di peso quali Enrico Letta e Paolo Gentiloni.

L’immaginario ideale della politica di Giorgia Meloni è dunque una novità assoluta per gli inquilini di Palazzo Chigi: è quello di un partito di lotta diventato forza di governo; quello di una formazione ove contano con grande rilevanza i legami interpersonali prima ancora che politici, con una forte base romana; è quello dell’incontro tra la Generazione Atreju, cresciuta tra i festival giovanili della Destra Romana a pane e politica tra dibattiti, conferenze e comunitarismo, e gli eredi di Alleanza Nazionale. Nel governo, del resto, sono ben rappresentati sia i primi (un nome su tutti: Francesco Lollobrigida), che i secondi (Adolfo Urso, Daniela Santanché, mentre Ignazio La Russa guida il Senato). Infine, è importante il fatto che il centro della Destra italiana si sposti, definitivamente, dalla Milano di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi alla Roma meloniana: sarà dunque iper-politica tutta la procedura di decisione per nomine, partecipate, cariche pubbliche che Fdi ha fame di conquistare per radicarsi nello Stato forte della sua prossimità ai palazzi.

Il ritorno della politica può essere salutare anche per le forze di opposizione di cui bisognerà testare la capacità di opporre a quella del governo una chiara visione. Giuseppe Conte, catapultato alla politica dal governo Movimento Cinque Stelle-Lega nel 2018, in campagna elettorale ha saputo essere figura politica a tutto tondo difendendo un orizzonte ideale (pace, giustizia sociale, welfare, ambiente) e ponendosi in contrapposizione sia alla destra conservatrice e liberale in economia sia a un Partito Democratico definito orfano di Draghi. Dall’ambiente alla famiglia, dallo sviluppo industriale alle infrastrutture, ora si prepara a dare battaglia su diversi temi. Sempre però con l’orizzonte del primato della politica.

La dialettica attorno al governo Meloni si farà nei palazzi e nelle piazze, nelle decisioni più complesse come nella quotidianità; la politica si riprende definitivamente ogni suo spazio come confronto di forze, interessi, uomini e si riscopre il suo potere di plasmare il futuro delle società. E per la Meloni e i suoi si aprono diverse sfide.

La prima prova di maturità sarà la capacità di gestire il sistema Paese e di radicare la destra conservatrice nella grande tempesta della crisi energetica, della corsa dell’inflazione e del rischio di una crisi sociale. La seconda quella di mediare tra i veterani della generazione Atreju cresciuti assieme alla Meloni a Roma con la valorizzazione delle forze culturali e politiche dell’area vicina a Fdi. La terza la legittimazione come partito radicato negli apparati securitari ed economici da un lato e come regista di un gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei sempre piu ambizioso. Ultima ma non meno importante la costruzione di un asse politico chiaro attorno a cui una nuova dialettica politica tra campi piu definiti può emergere nella discussione istituzionale italiana.

Per varie forze di opposizione queste sfide saranno, simmetricamente, le occasioni di confronto più ghiotte per approfittare di eventuali errori o proporre visioni alternative. Carlo Calenda sembra averlo capito più del Partito Democratico e del centrosinistra tradizionale, che dopo aver colpevolmente evocato il “rischio democratico” in campagna elettorale sta colpendo più la Meloni sul tema di una presunta superiorità morale dei progressisti che su progetti politici completi.

Ma la democrazia è anche quel sistema in cui l’alternativa si può costruire sotto gli occhi di tutti, non solo nelle redazioni dei giornali affini e nelle bolle social: e ora più che mai questo Paese ha un disperato bisogno del ritorno di una politica capace di confrontarsi e decidere in senso attivo. Mai in Francia, Germania, Regno Unito si penserebbe di prorogare fuori dalla sfera d’azione del politico i processi che in una fase storica cruciale e di fronte al mondo inquieto di oggi determinano il futuro delle collettività o i legami internazionali del Paese. La politica è chiamata alla prova di maturità sotto forma di maggioranza e opposizione, in rispetto delle istituzioni che le varie istituzioni occupano pro tempore. A Giorgia Meloni onore e onere di gestire il Paese in una fase critica della sua storia con un governo politico fino al midollo. All’opposizione, invece, quello di pensare la politica stessa come spazio di confronto, dialogo e, qualora necessario, duello con la nuova maggioranza uscita dalle urne. Ne va della salute del sistema-Paese.

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