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Il divorzio tesoro-Bankitalia

Questo articolo sarà il primo di una serie (non preoccupatevi non troppo lunga), per poter approfondire in modo maggiore l’argomento in questione.

di Ivan Giovi

Quando si parla della crisi strutturale dell’economia italiana, non si può non citare il tema del divorzio tra Tesoro e Istituto di Emissione (Banca d’Italia), che lungi dall’essere un argomento esclusivamente tecnico, come i loro esecutori vollero far passare, fu un provvedimento che condizionò profondamente la vita economica del nostro paese. Allontanandoci per un attimo dalle propagandistiche parole che in genere si sentono sui mass media o si leggono sui grandi giornali a proposito della situazione italiana, dove principalmente la colpa (del nostro debito pubblico) viene attribuita all’inclinazione tipicamente italica – o forse mediterranea – di spendere in modo irragionevole e non giustificato il soldo pubblico. Questo in passato avrebbe portato inflazione, debito pubblico e clientelarismo.

Senza alcun dubbio, una parte considerevole della spesa pubblica era utilizzata – e lo è ancora – per interessi che trascendevano la reale utilità, ma erano utilizzati per scopi clientelari, favori elettorali o politici, ecc. Non possiamo però fermarci a questa, anche se non sembra, spessa patina superficiale. Se vogliamo andare a fondo della questione dobbiamo interrogarci e svelare nel profondo quello che successe in quegli anni.


Il fatto che andiamo a trattare secondo alcuni potrebbe essere classificato come trafiletto tra le ultime pagine del Sole24Ore, destinato al pubblico di specialisti che conoscono la materia nel profondo, i cosiddetti “tecnici”. Invece non è per niente così. Quando nel 1981, il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi siglarono quello che era in loro potere fare, cioè liberare la Banca d’Italia dall’acquisto dei titoli residuali di debito pubblico italiano, iniziarono nei fatti quella che sarà la “svolta neoliberista” nella politica italiana.
Proprio in quegli anni infatti, l’ideologia e la filosofia neoliberista comincerà a far presa sulla totalità dei paesi cosiddetti industrializzati. Tatcher e Reagen salgono “al potere” nei loro rispettivi paesi, Regno Unito e Stati Uniti d’America. Di cui si ricorderà la famosa frase “There is no alternative”, pronunciata dalla Prima Ministra Britannica mentre annunciava fragorosi tagli alla spesa pubblica. Qualche anno prima il Nobel a Milton Friedman e a Friedrich von Hayek (ideatori delle teorie neoliberiste). In Italia ad effettuare le prime riforme di stampo neoliberista saranno i Governi retti dal Pentapartito, la storica alleanza tra DC, PSI, PSDI, PRI e PLI. Il pretesto saranno gli shock petroliferi, l’alta inflazione e una rete di intellettuali e tecnici all’interno dei Governi e delle Banche centrali che permetteranno tutto ciò.
È in questo contesto che l’Italia si obbligherà, valutando a posteriori forse stupidamente, a rispettare due vincoli. I vincoli in questione furono uno interno e uno esterno.

L’adesione allo SME fu quello esterno, il Sistema Monetario Europeo, un sistema di cambi semi-fissi (regolato da una banca di oscillazione massima tra le varie valute, l’ECU) adottato anche dall’Italia per poter restare nella “carovana” dell’Europa che conta. E quello interno fu appunto il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che fu imposto per ragioni proprie e, in conseguenza dell’adesione allo SME. Per questo i due vincoli sono complementari, ma lo vedremo meglio nelle prossime “puntate”.

Di Ivan Giovi

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