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Il Professore (e il) crocifisso

Qualche mese fa abbiamo festeggiato l’ennesima vittoria giuridica patrocinata dall’Uaar, questa volta sul crocifisso: non potrà più essere arbitrariamente imposto nelle aule scolastiche. Un avanzamento della libertà degli studenti e del personale scolastico. Ne parla Adele Orioli sul numero 6/2021 della rivista Nessun Dogma.
 

«L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo; ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita».

A parlare o meglio a scrivere così non siamo noi dell’Uaar, anche se non potremmo essere più d’accordo di quello che già siamo. E anche se la vicenda che è culminata in un brocardo così netto e destinato a fare storia, non solo giuridica, ci ha visti partecipi e patrocinanti per ben tredici lunghi anni. A scrivere così sono le Sezioni unite della Corte di cassazione, quella particolare composizione di ermellini che forniscono una interpretazione autentica che, pur in un sistema codicistico come il nostro, ha valore erga omnes, nei confronti di tutti e non solo delle parti in causa, e inderogabilità maggiore rispetto a qualsivoglia altro autorevole precedente.

Insomma, da oggi o meglio dal 9 settembre, data di deposito della sentenza n. 24414, possiamo buttare alle ortiche quella raccapricciante definizione di crocifisso data dalla nostra suprema corte amministrativa, il Consiglio di stato, nella quale, da simbolo religioso monoconfessionale, trasmutava con buona dose di fantasia e poca di senso del ridicolo in simbolo di laicità, riassumente in sé valori e tradizioni repubblicane. Simbolo che da oggi, meglio tardi che mai è proprio il caso di dire, è fatto divieto imporre dall’alto. Imposizione vietata da oggi peraltro non solo nelle aule scolastiche, oggetto del ricorso, ma in qualsivoglia altro spazio pubblico.

Tutto ha inizio tredici anni fa, quando un professore di un istituto superiore di Terni, Franco Coppoli, viene sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio per trenta giorni: una sanzione tanto inusuale quanto pesantissima, tale da far pensare a chissà quali misfatti. Il reato, o meglio è il caso di dire, il peccato del professore? Rimuovere il crocifisso da sopra alla sua testa (o coprirlo, da quando il simbolo venne misteriosamente da mani ignote bullonato alla parete) durante le sue lezioni per riappenderlo (scoprirlo) prima di uscire dall’aula. Accidenti, che losco figuro e pericoloso individuo! Che azione eversiva e perturbante! Ci sarebbe da ridere, se non fosse tutto accaduto sul serio sulla pelle di qualcuno.

Di sicuro, e per nostra fortuna, il qualcuno, Franco Coppoli, era ed è tutt’oggi una persona combattiva e tenace, pronta a esporsi in prima persona a vantaggio di tutti, non senza ripercussioni personali e lavorative che chi intraprende battaglie “pericolose” in una Italia clericale come la nostra conosce bene. Famiglia Lautsi-Albertin ed ex giudice Luigi Tosti in testa. Con il sostegno ininterrotto dell’Uaar, assistito dal sempre più prezioso avvocato Fabio Corvaja, fra vari gradi di giudizio, compresa una pilatesca lavata di mani della Cassazione sezione lavoro, il professor Coppoli aspetta tredici lunghi anni prima di vedere la conclusione del suo ricorso.

Conclusione che ai nostri occhi non deve essere appannata dal polverone mistificatorio creato ad arte dai titoli trionfalistici di parte avversa, perché senza ombra di dubbio alcuno segna una vittoria netta a favore della laicità. Ricorso accolto, sanzione annullata, imposizione del simbolo retaggio fascista illegittimo. Quasi troppo bello per essere vero. E, in effetti, a voler essere onesti, un problema la sentenza lo pone. Perché le Sezioni unite, così nette nella statuizione di principio ricordata in apertura, scelgono non di disapplicare perché non più vigente il regio decreto del 1924 e nello specifico quell’art. 118 che impone crocifisso e ritratto del re, ma di reinterpretarlo alla luce dell’ordinamento attuale. Una funzione legislativa, questa, che a stretto rigore una corte, persino quella delle Sezioni unite, non dovrebbe almeno in teoria né possedere né esercitare (se non altro da Montesquieu in poi…). I togati così scivolano in un cerchiobottismo che si rifà alla normativa in vigore in Baviera, che anche senza volerne sottolineare altri aspetti problematici in punta di diritto, si presenta di notevole se non impossibile difficoltà attuativa.

Nel riprendere la definizione della Grande Chambre Edu di simbolo passivo, che non obbliga cioè a gesti devozionali diretti, e quindi di per sé non discriminatorio per la sua semplice presenza, gli ermellini reinterpretano la norma fascista alla luce dei principi costituzionali e ritengono possibile l’esposizione di tutti i simboli religiosi di tutte le religioni presenti, non del solo crocifisso quindi, sulla base della volontà dal basso di una per ora non ben precisata comunità scolastica.

Sotto la guida di un «accomodamento ragionevole» insomma, aula per aula sarebbe possibile contrattare fra crocifissi, menorah, mezze lune o perché no prodigiosi spaghetti pastafariani. Soluzione che ovviamente non convince nessuno, tranne – forse – i giudici stessi. Non solo per l’oggettiva complicazione in termini pratici che questo accomodamento comporterebbe, tra consigli di classe e di istituto, docenti, alunni, e oltre diecimila (sic) religioni attualmente presenti nell’universo mondo. Non solo per il rischio concreto che la eventuale querelle si risolva alla fin fine nella prevalenza del più forte, in una gara esibizionistico-muscolare anche fra le confessioni di minoranza. Non solo perché si sostituisce all’inclusività del muro bianco, quella neutralità rispettosa e accogliente che dovrebbe essere connotato imprescindibile dello spazio pubblico, un pluralismo artefatto e on demand. Ma soprattutto perché, per essere messo in atto, l’accomodamento ragionevole comporterebbe un obbligo di coming out fideistico espressamente escluso da normative e convenzioni di tutela dei diritti umani fondamentali.

Di sicuro comunque questa storica pronuncia è netta nel decretare quello che come Uaar da sempre sosteniamo, e cioè la violazione su tutti del diritto umano fondamentale di libertà di coscienza ovunque vi sia una imposizione fideistica all’interno di uno spazio pubblico di uno Stato che si definisce laico e democratico. Altrettanto sicuramente nasceranno altre vicende, probabilmente altri contenziosi, dalle conseguenze pratiche del crocifisso a richiesta e come Uaar siamo pronti. Anzi, segnalazioni a [email protected] stanno già arrivando e aspettiamo anche quelle di chi ci sta leggendo ora, mentre già pensiamo a come utilizzare la novellata normativa a favore di una compiuta secolarizzazione dello spazio pubblico. Ma con una buona dose di orgoglio e sicurezza possiamo intanto, per una volta e per un momento, nonostante i titoloni di Avvenire e la soluzione bavarese tricolore, essere semplicemente soddisfatti di questo epilogo.

Dal primo gennaio 1948 l’Italia ha una costituzione democratica; dal 1984, dai cosiddetti accordi di palazzo Madama, non ha più una religione di stato; dal 1989, dalla sentenza 203 della Corte costituzionale, annovera la laicità fra i principi supremi dell’ordinamento. E lenti, molto lenti (i giudici), inesorabili e coraggiosi (i non credenti), dal 9 settembre 2021 sono vietati i crocifissi imposti negli spazi pubblici. Un passo importante, non il solo, non certo l’ultimo, verso un paese di uguali diritti senza privilegi: continuiamo a camminare, insieme.

Adele Orioli

 

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