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Il Decreto Rilancio e la manina rivoluzionaria

Nella bozza del “decreto Rilancio” che – secondo le nuove prassi ben poco costituzionalizzate – era stata fatta circolare mercoledì 13 maggio (la mitica bozza delle ore 17:00), era stata inserita una norma molto ambiziosa.

di Piero Cecchinato

Si trattava dell’art. 45bis (e già il bis, forse, dovrebbe darci delle indicazioni sulla precarietà della misura, evidentemente suggerita da qualche illuminato in corsa).

Una norma posta con l’intento di agevolare gli aumenti di capitale delle imprese, come evidenziato dalla stessa bozza di Relazione illustrativa, per la quale,

[…] nell’ambito delle modificazioni del diritto societario volte ad aiutare le imprese italiane ad affrontare la difficile congiuntura economica dovuta alla pandemia del Covid-19, è stata evidenziata l’esigenza di favorire la spedita deliberazione ed esecuzione di operazioni di aumento di capitale.

Succede che, per evitare di chiudere, un’impresa in difficoltà e sotto patrimonializzata (cioè, in sostanza, con debiti che eccedono l’attivo e con scarse prospettive di miglioramento) spesso non possa che chiedere ai soci di apportare nuove risorse. Risorse che, per non aumentare ulteriormente l’indebitamento, dovrebbero essere assoggettate a puro rischio di impresa.

Per questo si aumenta il capitale sociale: per aumentare l’apporto di puro rischio dei soci e bilanciare l’eccesso di debiti senza crearne di nuovi.

Si tratta di un’operazione che però deve passare per il confronto, spesso aspro, fra soci in assemblea, perché l’aumento va deliberato e non tutti potrebbero concordare sull’opportunità di immettere nuovi fondi. Magari perché non disponibili ad assumere altro rischio su quell’impresa o perché privi di risorse da apportare.

In questi casi, i soci dissenzienti e non disponibili ad apportare nuovi fondi, potrebbero porre il veto sull’aumento per evitare che le loro partecipazioni si riducano (in conseguenza dei maggiori conferimenti degli altri) o per evitare che il capitale si apra a nuovi soci.

I soci dissenzienti di una Spa oggi sono agevolati nell’opporre un veto dal fatto che le norme vigenti, per deliberare l’aumento, richiedono una maggioranza di 2/3.

Per tale ragione, l’art. 45bis della bozza di decreto, seppur in via temporanea, disattivava il quorum deliberativo rafforzato dei 2/3 (artt. 2368 e 2369 del codice civile), prevedendo come sufficiente il voto favorevole della maggioranza semplice dei soci.

La norma si spingeva inoltre a ritenere bastevole la maggioranza del capitale pure per le delibere aventi ad oggetto l’introduzione nello statuto sociale di limitazioni al diritto di opzione in favore dei soci esistenti (e ciò per aprire più agevolmente il capitale a nuovi soci) e l’attribuzione agli amministratori della facoltà di aumento delegato, in autonomia dall’assemblea, del capitale sociale, per velocizzare ulteriormente il processo.

Infine, la norma allargava le maglie di possibili aumenti di capitale con esclusione del diritto opzione in favore dei soci esistenti (cioè il diritto ad essere preferiti nella sottoscrizione dell’aumento), sempre con lo scopo di semplificare e velocizzare le operazioni di raccolta di capitali di rischio e pur sempre nel rispetto dei vincoli delle norme europee e delle necessarie tutele dei diritti dei soci.

Tali deroghe si sarebbero dovute applicare sino al 31 dicembre 2020. Fino a quella data, quindi, l’esigenza di tenere in piedi l’impresa avrebbe giustificato una piccola contrazione dei diritti dei soci.

Una norma, a quanto pare, dall’impatto decisamente ambizioso per il diritto societario italiano, un po’ assonnato al confronto con molti sistemi del Nord Europa.

Una norma così ambiziosa da meritarsi la rimozione dalla versione definitiva del Decreto Rilancio.

Ma chi mai avrà inserito questa norma rivoluzionaria nella bozza del Decreto Rilancio? Il solito “burocrate” da ministero, magari con avallo di qualche ministro stranamente consapevole della materia? Come che sia, le riforme fatte di soppiatto di solito non hanno grandi speranze di passare. Ma nel contesto italiano, dove l’analfabetismo funzionale pare avvolgere anche la normazione, oltre al dibattito pubblico, tentar non nuoce (MS)

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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