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I volti emaciati dei prigionieri di Sisi

L’ormai più noto recluso d’Egitto, Patrick Zaki la cui detenzione è entrata nel decimo mese, subendo a ogni comparizione davanti alla Corte un ulteriore rinvio di quarantacinque giorni, è stato fotografato in una di queste sadiche apparizioni. 

Udienze che magistrati e governo egiziani dispensano, cercando di affermare il proprio “senso dello Stato” e “attaccamento alla Giustizia”. Invece mostrano il più sprezzante abuso di potere, la manipolazione della legge, lo strangolamento del diritto. Ecco, in quei momenti sospesi fra la tensione e il cinismo di chi rimanda “l’imputato” a una prossima scadenza, qualche amico del ricercatore ostaggio d’una nazione matrigna, l’ha colto in un’istantanea. Smagrito, tirato, sofferente. Ben diverso dal paffuto volto disteso, apparso in un altro scatto fra i compagni di studio e di svago dell’università di Bologna un anno fa. Quando, pur nel degrado economico e morale in cui è caduto il suo Paese, il dottorando non pensava di diventarne l’ennesimo perseguitato politico. Di quelle immagini - fra prima e adesso - si possono cogliere migliaia di facce alterate dalla precarietà vissuta in cella, dalle botte prese e, quando va peggio, dalle torture ricevute. Sevizie che si cerca di celare, perché possono reiterarsi e diventare ancora più violente e umilianti. 

Osservate ora un altro carcerato, qualche anno in meno di Zaki, Abd al-Rahman Tariq, Moka per gli amici e gli attivisti con cui s’impegnava nelle ultime manifestazioni tenute al Cairo sette anni or sono. Per esse venne arrestato e condannato a sorveglianza poliziesca. Per sei anni, ogni sera alle diciotto Moka doveva recarsi in un commissariato e restarci fino alle sei del mattino. Decisamente meglio che starsene ventiquattr’ore rinchiuso in una cella, umida, sporca, sovraffollata di Tora. Ma la sua vita era ferma. Non solo quella pubblica e sociale, rese impossibili agli oppositori del regime. La medesima esistenza quotidiana è rimasta appesa a un’ordinanza giudiziaria che nel settembre 2019 lo confinava in uno stato di detenzione pre-processuale. Le sembianze mutavano, il volto e l’umore messi a confronto con la condizione degli anni precedenti, svilivano non per un naturale invecchiamento, bensì per i travagli e gli abusi. Il 10 marzo di quest’anno l’incubo pareva terminato. Ma il sorriso riapparso per cinquanta giorni ha iniziato a sfiorire a fine aprile. Un nuovo arresto per altre pendenze e conseguenti indagini. Il 21 settembre la Corte Criminale dispone una scarcerazione che, però, non viene eseguita. Moka resta detenuto nella struttura di Qasr el-Nil, in questo caso detenuto illegalmente rispetto a quanto predisposto dalla stessa Corte, tutto ciò fino allo scorso 3 dicembre. Quel giorno è scattato un nuovo provvedimento, 1056 del 2020 (gli addebiti seguono numerazioni disposte dai magistrati). L’accusa è simile alle precedenti: essersi unito a gruppi terroristi, attentando alla sicurezza nazionale. La faccia di Moka, come quella di migliaia di accusati indebitamente, continuerà a incupirsi, giorno dopo giorno. 

L’accanimento dei persecutori verso la gente d’Egitto coglie alla cieca le persone più innocue, altro che terroristi… Sherif al-Roby nel 2011, aveva sperato, assieme a milioni di concittadini, in una svolta democratica della nazione. Oggi ha quarant’anni, una moglie e due figli. Fa il contadino nella splendida oasi si Fayum, circa un centinaio di chilometri a sud della capitale. Un luogo magico, noto sin dall’epoca dei faraoni. Venne fermato all’epoca dei moti di Tahrir, ma dopo non s’è più occupato di politica. Da tempo fa il contadino con un unico scopo: aiutare i bisognosi. Sia direttamente, regalando ai diseredati prodotti dei terra che coltiva, sia avviando giovani all’atavico e indispensabile lavoro agricolo. Chi lo conosce racconta che in piena pandemia s’industriava a pulire e disinfettare le strade di Fayum, abbandonate a se stesse, e soccorreva gli anziani in attesa davanti agli uffici amministrativi. Li faceva sedere, li intratteneva parlando e sorridendo e raccontava quest’impegno anche sui social. Evidentemente nel disumano Egitto dei militari, l’umanità non ha ragione d’esistere. Sherif è sparito nel nulla e i suoi amici temono per lui. Magari a breve comparirà in qualche cella. Lì dove il tempo si ferma e dove qualcuno, per malattie contratte o depressione, non ce la fa a sopravvivere. Anche queste sono sentenze capitali, come le pene inflitte periodicamente dalla Corte suprema. 

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