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I numeri, la crisi e la carne da cannone

La nostra crisi è, prima che la conseguenza di quella finanziaria globale, il risultato del fallimento di un modello di sviluppo; quello che l’intera nostra classe dirigente, politici con imprenditori e sindacati a braccetto, hanno scelto decenni or sono.

Siamo in recessione, ma non è una novità, anche secondo l’Istat.

Il PIL Italiano, nel primo trimestre dell’anno, è calato dello 0,8% rispetto all’ultimo dell’anno precedente e dello 1,4% rispetto al primo del 2011. Determinante è risultato il calo della spesa del settore privato e in particolare delle famiglie, diminuita del 2,4% e, in particolare, dello 11,8% per quando riguarda quella destinata all’acquisto dei beni durevoli. Pesantissima anche la riduzione tendenziale degli investimenti delle imprese, in particolare per quanto riguarda quelli in mezzi di trasporto, che diminuiscono del 15,7%, e in macchinari, che scendono del 7,2%.

La disoccupazione, e in particolare quella giovanile, nel frattempo, aumenta. Secondo altri dati forniti sempre dall’Istat, tra il 2008 e il 2011, sono aumentati del 35 e più per cento quelli, con un'età compresa tra i 15 ed i 24 anni, che cercano lavoro: erano il 21,3% quattro anni fa; sono il 29,1% oggi. Il 22,7% dei nostri giovani, poi, non studia né lavora, e anche questo dato è in netto aumento ( nel 2008 era il 19,3%).

Siamo in crisi, insomma, e assai più di quanto lo siano gli altri paesi. A parte economie come quella americana, che cresce al ritmo del 2 %, anche in Europa nessuno cala quanto noi; la Germania, addirittura, continua a crescere, seppure solo dello 1,2% su base annua, mentre il PIL complessivo dell’area Euro resta stazionario.

Una crisi che, però, non stiamo pagando tutti allo stesso modo. Secondo dei dati forniti stavolta da Bankitalia, negli anni tra il 2006 ed il 2010, le famiglie hanno visto il proprio reddito ridursi dello 8,5%. Diminuzione analoga, del 9%, hanno registrato i redditi delle famiglie dei lavoratori autonomi, mentre ancora maggiore è stata quella del reddito delle famiglie dei dirigenti, sceso del 13%. Nello stesso periodo è rimasto sostanzialmente invariato il reddito delle famiglie di impiegati ed insegnati ed è addirittura aumentato (di poco; del 3,3%) quello delle famiglie di pensionati.

La crisi, detto in poche parole, la sta pagando per intero il settore privato.

Considerando il decennio 2000-2010, emerge inoltre che mentre il reddito delle famiglie dei lavoratori autonomi è aumentato complessivamente del 15,7%, e aumentati sono pure quelli delle famiglie dei dirigenti ( dell’8%), quello delle famiglie di operai, apprendisti e commessi è diminuito del 3,2%.

Tutto questo mentre i nostri marchi del lusso continuano a registrare utili (da record quelli appena comunicati da Prada) e mentre le esportazioni hanno in generale tenuto.

Tirando le somme appare abbastanza chiaro quel che sta accadendo ed è accaduto.

Le nostre imprese, trovatesi di fronte nuovi concorrenti sui mercati mondiali, hanno dovuto fare i conti con la propria incapacità d’innovare i prodotti (fanno, in genere, le stesse cose da decenni) e con la scarsa competitività del nostro sistema paese, dovuta innanzitutto alla pubblica amministrazione peggiore di tutta l’OCSE (lo ripeto per l’ennesima volta; 73esima al mondo per efficienza secondo il WEF). Son riuscite brillantemente a resistere, mantenendo e a volte aumentando le proprie quote di mercato, ma lo hanno fatto solo riducendo il costo del lavoro: delocalizzando e, soprattutto, con il beneplacito di sindacati intenti ad occuparsi d’altro, diminuendo, in termini reali, i salari dei propri dipendenti.

Scelte che a medio termine hanno determinato la contrazione del nostro mercato interno: crisi finanziaria o no, i dipendenti, rischiando di vedere il proprio lavoro finire in Romania, hanno smesso di assumere impegni finanziari e, di fronte ad una diminuzione dei propri redditi, non hanno potuto che ridurre i propri consumi.

Meno consumi, meno vendite, meno fatturato, meno investimenti ...

Se ne dev’essere accorta la stessa Confindustria che, dopo decenni passati a cantare il ritornello “dobbiamo diminuire il costo del lavoro”, ora sta zitta.

Zitta non solo su quel fronte; incapace di dire alcunché se non alzare proteste di fronte ai timidissimi tentativi di liberalizzazione di Monti.

Devono decidere qual è il loro ruolo, i nostri imprenditori: se essere classe dirigente o continuare ad essere le sanguisughe che sono stati negli ultimi decenni. Se cambiare, decidendo finalmente di associarsi, per cominciare a fare ricerca, tornare a fare innovazione ed entrare in nuovi mercati con armi commerciali adatte al XXI secolo, o continuare a vivacchiare, sfruttando sempre di più i propri dipendenti, nella speranza che il deus ex machina della spesa pubblica arrivi a far ripartire l’economia.

Deus ex machina su cui faranno bene a non contare neppure i sindacati, che paiono più attenti alla difesa dei simboli che a quella dei salari. Soprattutto che dovrebbero capire come, e i numeri sono lì a dimostrarlo, l’inefficienza del settore pubblico sia pagata, prima di ogni altro, proprio dagli operai le cui sorti dovrebbero star loro tanto a cuore.

Dall’eterna, sempre più povera, carne da cannone.

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