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Grecia, incendio distrugge il campo profughi di Moria: un altro tragico campanello d’allarme per la politica d’asilo dell’UE

Gli incendi in un centro di accoglienza per richiedenti asilo sull’isola greca di Lesbo hanno lasciato migliaia di persone senza tetto. Circa 13.000 persone – provenienti tra l’altro da Siria, Afghanistan, Iraq e Africa occidentale – vivevano al Centro di accoglienza e identificazione di Moria (RIC) in uno spazio destinato a poco più di 3.000 persone. La maggior parte di loro ha perso i pochi averi e le abitazioni di fortuna.

di Gemma Bird

 

Quest'articolo è disponibile anche in: Inglese

Lesbo in stato di emergenza dopo gli incendi al campo profughi di Moria. (Foto di Orestis Panagiotou/EPA)

 

Ora Lesbo è ufficialmente in stato di emergenza. Sono state inviate delle navi per aiutare a dare rifugio a chi è rimasto a dormire nelle strade fuori dal campo, alcune delle quali sono state bloccate dalla polizia per impedire alle persone di entrare nei villaggi vicini. Nel frattempo, c’è confusione su come si svilupperanno i casi di asilo, perché il fuoco ha danneggiato anche molte delle zone amministrative del campo.

Questo è solo l’ultimo di una serie di tragici casi di incendi e violenze, oltre che di condizioni disumane, subiti da coloro che cercano asilo nelle isole dell’Egeo di Lesbo, Samos, Chios, Leros e Kos. E’ un forte richiamo ai fallimenti del sistema attuale e alla necessità di un cambiamento.

Il COVID-19 ha portato a un aumento delle restrizioni alla libertà di movimento di coloro che si trovano nei centri delle isole, rendendo ancora peggiori le condizioni già precarie. Mentre le restrizioni imposte alla fine di marzo in tutta la Grecia sono state attenuate, la revoca del blocco nei centri insulari continua ad essere rimandata. Gli altri residenti delle cinque isole e i turisti possono incontrarsi per un caffè, per andare in spiaggia o uscire a cena, ma ai residenti dei Centri di accoglienza viene negata la libertà di movimento anche nel caldo torrido. Sono stati abbandonati in condizioni inadeguate, con un accesso limitato ai servizi igienici, al cibo e all’acqua. Il rischio di COVID-19 rimane alto, e 35 persone sono risultate positive a Moria prima degli incendi.

Un sistema ingiusto

Cosa devono fare ora l’UE e il governo greco? Il giorno dopo l’incendio di Moria, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha detto che la Commissione è pronta a sostenere la Grecia, e che la priorità è “la sicurezza di coloro che sono rimasti senza riparo”. Eppure ancora nel marzo scorso Von der Leyen ha ringraziato la Grecia definendola lo scudo dell’Europa a causa della sua posizione al confine con la Turchia.

Una situazione in cui la Grecia è intesa come lo scudo dell’Europa, che scarica la responsabilità della migrazione e delle politiche di confine sugli Stati vicini, è una situazione che porterà inevitabilmente al sovraffollamento dei campi nelle isole dell’Egeo, così come alla perdita di vite nel Mediterraneo. Lo stesso vale per un approccio che ignora le offerte delle città dei Paesi Bassi di accogliere dei rifugiati, dato che i governi nazionali continuano ad affidare tutto alla Grecia. Le politiche volte a respingere, rimpatriare o impedire l’ingresso di persone in Europa non garantiranno percorsi realmente sicuri e legali per l’attraversamento delle frontiere.

La politica dell’UE ha permesso alla Grecia di costruire dei centri di detenzione chiusi nelle isole dell’Egeo e di accelerare il processo d’asilo affidandosi a periti non specializzati delle forze di polizia. Queste misure non garantiscono un sistema sicuro, equo e giusto. Secondo il diritto internazionale le persone hanno il diritto di chiedere asilo e di attraversare le frontiere per poterlo fare. Trattenere le persone senza un limite di tempo non rispetta questo diritto.

Migliaia di persone sono rimaste senza riparo dopo gli incendi del campo di Moria il 9 settembre. Stratis Balaskas/EPA

Ricostruire Moria non è la risposta

Qual è l’alternativa? Innanzitutto, non è ricostruire Moria. Né la Grecia né l’Unione Europea possono continuare a fare affidamento sulle cinque isole greche come spazio per trattenere le persone per mesi, spesso anni, in condizioni inadeguate.

All’inizio del 2020 c’erano 40.000 persone ospitate sulle isole, anche se collettivamente i centri sono stati costruiti per alloggiare circa 5.500 persone. Il numero è diminuito a causa del trasferimento di minori non accompagnati in altri stati dell’UE e in alloggi alternativi nella Grecia continentale, ma la politica attuale non impedisce che il numero di persone bloccate nei centri di accoglienza torni a salire.

Per cambiare realmente le condizioni dei richiedenti asilo è necessario un radicale ripensamento della risposta collettiva europea su questo tema, che riconosca gli esiti positivi dell’accoglienza dei rifugiati.

Un sistema di questo tipo si basa su un ripensamento della retorica che circonda la migrazione e i rifugiati. L’Europa ha bisogno di una nuova posizione sull’accoglienza, che offra alle persone in situazioni di vulnerabilità la possibilità di una vita stabile, di lavorare, di studiare e avere il diritto a una vita familiare protetta. Questo significa aprire piuttosto che chiudere le frontiere. Significa riconoscere che il passaporto e il luogo di nascita sono una questione di fortuna e niente di più. Significa la fine della dipendenza da Lesbo, Samos, Chios, Leros e Kos come luoghi in cui la vita delle persone viene sospesa in attesa di decidere dove mandarle.

Se questo cambiamento non avverrà, se le isole rimarranno sovraffollate e gestite come luoghi di detenzione, allora è più che probabile che sia solo una questione di tempo prima che si verifichi il prossimo, tragico disastro.

Traduzione dall’inglese di Thomas Schmid

Revisione di Anna Polo

Questo articolo è stato pubblicato qui

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