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Gli Italiani tra interventismo e pacifismo

Sarebbe pressoché ripetitivo parlare dell’indecente e patetico atteggiamento assunto dallo Stato Italiano in merito alla questione libica. È forse il caso di comprendere invece quale sia l’atteggiamento della società civile italiana, divisa come sempre tra interventisti e neutralisti.

Prima che scoppiasse la guerra, tutti – com’è giusto che sia – hanno condannato i crimini contro l’umanità commessi dal colonnello Muammar Gheddafi. Tutti – com’è giusto che sia – erano in prima fila per manifestare la loro solidarietà al popolo libico. Molti di essi hanno anche occupato le piazze italiane, per mandare messaggi a Gheddafi e intimargli di porre fine al massacro. Messaggi che, c’era d’aspettarselo, non hanno sortito alcun effetto.

Accantonato questo vano tentativo, è rimbalzata l’ipotesi delle sanzioni economiche. È inutile perder tempo anche solo a parlarne. La storia ci ha dimostrato l’assoluta inefficacia e l’inutilità di tali sanzioni. Che non ci si appelli a questo stratagemma, quindi, per difendere la causa dei neutralisti: è un buco nell’acqua. Molti ritengono che “forse” attraverso la mediazione di Putin e Chavez si poteva evitare il conflitto. Come si possa tuttavia avanzare queste ipotesi e spacciarle per realizzabili sfugge. Forse non hanno capito il personaggio Gheddafi. O forse non lo vogliono capire.

È inutile inoltre difendere la causa neutralista accampando la scusante del dissenso di Russia e Cina sull’intervento militare. Non si capisce infatti perché, se accettiamo il fatto che l’Occidente abbia dato il via alle azioni di guerra per i propri interessi, la Russia e la Cina si debbano opporre per motivi eminentemente umanitari e non per i loro, di interessi. Non prendiamoci in giro, noi italiani non possiamo dare lezioni a nessuno su cos’è giusto e cosa non lo è. Ma neanche possiamo prenderne da Putin e da Hu Jintao. Per quanto sia un demerito altrui, piuttosto che un merito nostro, questo ci va tuttavia riconosciuto.

La no-fly zone è stata da molti ritenuta, all’inizio, un buon escamotage per cavarsi d’impaccio dall’insidiosa indecisione sulla posizione da prendere. Forse perché non si sapeva cosa fosse in realtà. Come molti generali dell’esercito Usa hanno affermato, la no-fly zone prevede un successivo intervento armato. Per la semplice ragione che se ti imponiamo di non far volare i tuoi aerei, e tu li fai volare, noi li dobbiamo abbattere. E se si attacca l’aereo di uno stato, si attacca uno stato. Ma la semplice no-fly zone risulta inefficace anche da un punto di vista meramente pratico. Laddove infatti venisse scongiurato il massacro per via aerea, ciò non impedisce che continui per via terrena.

Ci sono altri, pochi per fortuna, che addirittura stanno tentando di ridimensionare la figura del Colonnello, asserendo che in fondo non è un criminale come i mezzi di comunicazione ci vogliono far credere. Non c’è da spenderci due parole su simili sciocchezze. Si commentano da sole.

Insomma, questo è l’inventario di tutte le possibilità concrete (quanto poi siano concrete si capisce) in alternativa all’intervento militare. A meno che, va aggiunto, non si decida di non far assolutamente nulla. Questa è un’ipotesi assolutamente più accettabile di tutte le altre. Sul serio. A patto che non si vada poi in giro a condannare i crimini di Gheddafi e dei suoi uomini. La coerenza ci imporrebbe il silenzio, ipocrita senza dubbio, ma con quella sua omertosa logica che affonda le radici nell’atavico “Chi si fa i fatti suoi campa cent’anni”. Alla domanda: “Ma hai visto che sta combinando quel rodomonte di Gheddafi?” dovremmo rispondere biascicando degli ehm, uhm, eh già, per poi cambiare discorso. Perché sarebbe davvero squallido ergerci a difensori dei deboli a parole. Solo a parole.

È quindi inutile richiamarsi a fantomatiche “altre strade”. Sono tanti che ritengono che il fuoco non possa spegnere altro fuoco, per cui altre erano le strade da battere. Ma quali? Nessuno è in grado di dirlo. Perché non ce ne sono. C’è invece una diffusa volontà di non arrendersi a una verità così ovvia quanto sfuggente: che per fare qualcosa, bisogna fare qualcosa. Quelle inafferrabili “altre strade”, che un po’ rimandano a quelle scorciatoie, quei disimpegni, quelle arzigogolate manovre dei nostri politici che subito siamo lesti ad esecrare, ad additare al pubblico ludibrio, non si vedono all’orizzonte. Questo a riprova che la natura di una classe politica è lo specchio della società da essa rappresentata. Uno specchio in cui, spesso, preferiamo ipocritamente non rifletterci.

In ultimo vanno rispedite al mittente le scusanti con le quali si gettano ombre sul cosiddetto “dopo”. Molti, e certamente – gli va riconosciuto – hanno ragione, sono convinti che, anche se Gheddafi venisse sconfitto, ciò non porterà all’instaurazione di un potere realmente democratico, scevro dalle influenze degli Usa. È vero, la Storia ce lo ha dimostrato. Ma bisogna decidere se la priorità, ora, sia fermare il massacro perpetrato da Gheddafi o meno. Se lo è - da qui non si scappa - allora bisogna agire. E al dopo ci si pensa dopo.

 

(fonte foto: Reuters)

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