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Giustizia d’Egitto

Un illuminante esempio del funzionamento tipico della giustizia in una dittatura. In Egitto sono stati condannati undici tra dipendenti e dirigenti del museo Mahmud Khalil, che questa estate era stato teatro del clamoroso furto di un quadro di Van Gogh.

L'accusa è di negligenza, nessuno dei condannati è accusato di aver preso parte al furto, e la pena in primo grado è stata determinata in tre anni a testa. A poco è servita la testimonianza del capo del dipartimento egiziano della arti che ha ricordato di aver chiesto quattro milioni e mezzi di sterline per implementare la sicurezza dei musei e di averne ricevute solo 56.000 dal ministero. Il ministro della cultura Farouk Hosni ha detto che non è vero, fine dei giochi.

Eppure il museo era talmente povero e con così poco personale, che a volte era presente una sola guardia per tutto l'edificio, mentre funzionavano solo alcune della quarantina di telecamere piazzate ormai anni ed anni fa.

Come sempre accade in questi casi la punizione esemplare colpisce gli innocenti, il regime non può permettersi di dimostrare impotenza o inattività di fronte a un affronto del genere e le sentenze di condanna, in particolare quelle assurde come questa, servono a ricordare a tutti che nel paese le uniche regole sono quelle che decide il potere e che la vita di tutti dipende dalla benevolenza, o più precisamente dall'umore, di chi comanda. Che in questo caso ha pensato evidentemente che una manciata di vittime sacrificali, scelte più o meno a caso ed esibite al popolo, sono sempre meglio di niente.

Il popolo e il caro leader non potranno dire che la giustizia egiziana è impotente, undici colpevoli sono già stati individuati e condannati, poco importa che non fossero i ladri e che del quadro sparito non si sappia più niente, l'importante è ribadire la forza del comando e la sua imprevedibilità.

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