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Giorno della Memoria. Differenze da non dimenticare

Ama il prossimo tuo come te stesso. Bella frase.

I cristiani ci si sono formati un’identità culturale, sostanzialmente rivendendosela come propria, anche se questo non corrisponde proprio alla verità.

Ci ricordiamo tutti che sta nei Vangeli, ma in realtà è una frase del libro biblico del Levitico (nella foto) che, essendo testo di scuola sacerdotale giudaica, risalente al VI secolo a.C., è ebraico, non cristiano.

Per l’esattezza nello stesso capitolo 19 di questo libro, la frase ricorre due volte. La cosa non è senza rilevanza perché, si sa, se ne citi una senza citare l’altra, il gioco (leggasi: l’imbroglietto) è fatto. Ad esempio, recensendo il libro di Bianchi-Cacciari titolato proprio “Ama il prossimo tuo”, su La Stampa di sabato scorso è evidenziata la citazione del primo dei due passi di cui ho detto: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso" (Lev. 19, 18).

E’ chiaro, no? Chi è il “prossimo tuo” in questa frase? Ovviamente è “i figli del tuo popolo”, cioè gli altri ebrei. E infatti l’autore dell’articolo, Federico Vercellone, afferma che "l'intento del passo del Levitico è quello di fare di Israele una comunità giusta e solidale fra i suoi membri”. Eccellente e indiscutibile sintesi. Ma se qualcuno si aspetta che poi appaia anche l’altro passo sarà deluso. Tutta la recensione prende una strada diversa: “Non è possibile non riscontrare come il mandatum novum rappresenti una delle grandi fratture prodotte da Gesù nei confronti del giudaismo”. Il mandatum novum e la grande frattura con il giudaismo.

Resta quindi nella mente l’idea erronea che il “prossimo” sia per gli ebrei semplicemente l’altro ebreo; che tutto cioè si chiuda all’interno del cerchio etnicamente definito. Da questo emergerebbe, per contrasto, un cristianesimo aperto all’universo mondo, capace di abbattere i limiti angusti dell’appartenenza identitaria su base etnica, tramite un amore senza confini. Un apprezzamento, finalmente, del diverso da sé, base e fondamento di un superamento del “razzismo” ebraico. Peccato che non sia per niente così.

La seconda frase, pochi paragrafi più oltre, la ricordo io, viste le clamorose dimenticanze dei recensori di casa nostra. Dice così: “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto” (Lev. 19, 33-34). Facile da verificare.

Il “prossimo tuo” ebraico quindi è sì l’altro ebreo, in una prima prospettiva individuale per cui il tuo vicino di casa è il tuo prossimo, ma anche il forestiero, in una visione collettiva, per cui l’altro popolo è “prossimo” al tuo popolo. Prima si chiarisce un punto, poi in successione l’altro. Non c’è limite etnico all’idea ebraica relativa al “prossimo”. Il cristianesimo non si caratterizza perciò per l’innovazione di un amore universale da contrapporre, come si insinua implicitamente nella recensione citata e più ampiamente nella cultura occidentale cristianizzata, a quello gretto, nazionalisticamente egoistico, claustrofobico, dell’ebreo, già pronto mentalmente alla ghettizzazione.

A dire il vero una novità c’è nel pensiero cristiano. Che è quella del porgere l’altra guancia: il Discorso della Montagna.

E’ l’idea che al “nemico” (non ad un generico “prossimo”) si possa guardare con occhi non vendicativi; anzi addirittura amandolo. Questa è effettivamente una novità che non credo abbia eguali nel mondo contemporaneo al primo cristianesimo; né nella cultura ebraica né in quella greco-romana né, per quanto ne so, in quella persiana.

Ma la successiva storia del cristianesimo si è incaricata poi di fare chiarezza; abbiamo scherzato, amare il proprio nemico è un po’ troppo, cose che si dicono così, magari per smussare i toni del contrasto con i nemici. Perlomeno fino a che i nemici erano i Romani che erano un po’ troppo tosti perfino per i combattivi giudei. Meglio volare bassi e promettere a Cesare quel che è di Cesare, cioè pagare le tasse, stare buoni e rimandare il tutto all’aldilà.

Poi, una volta salita al potere, la Grande Chiesa regolerà diversamente le sue questioni con gli "altri". Con gli eretici in primo luogo. Con le donne, come Ipazia, fatta letteralmente a pezzi dai parabolani del vescovo Cirillo. Con gli ebrei stessi. Roghi su roghi su roghi, altro che storie.

Meglio lasciar perdere l’amore per il nemico, così poco credibile, e ripiegare di nuovo su un ingenuo e generico amore per un non meglio definito (e non troppo impegnativo) “prossimo", cercando per quanto possibile di farla passare come idea propria. Anche se “Extra Ecclesiam nulla salus” si diceva. Nessuna salvezza è possibile se si resta fuori dalla Chiesa. Nessuna salvezza è riconosciuta a chi non è “uguale”. Né qui né nell’aldilà.

Altra perla da confrontare con l’idea ebraica di ‘salvezza’ di cui sono degni i “giusti”, non necessariamente ebrei. Così come "giusto" (e per ciò salvato) era il Noè del diluvio, che di sicuro ebreo non era.

Una religione esclusivista, quella ebraica, che proponeva però una cultura universalista in cui non è obbligatorio essere convertiti per essere degni di salvezza. Cioè degni di essere considerati esseri umani.

Idea opposta a quella del cristianesimo: una religione universalista che ha sempre proposto una cultura esclusivista. Vale a dire che il “prossimo”, il diverso da sé, non è degno di salvezza se non si converte. Il che, detto in altri termini, significa che la "diversità" non deve esistere proprio. Alla faccia dell’amore per il prossimo.

Fra poco è la giornata di commemorazione dello sterminio degli ebrei europei.

Ricordiamocele queste piccole differenze culturali, e magari ricordiamoci che non ricorrono solo settant’anni dalla Shoah, ma anche venti secoli di continue persecuzioni contro i diversi, tutti i diversi da sé, di cui la cristianità è stata impareggiabile maestra. Di delitti, di pene e di razzismo. Ricordiamoci le differenze, tanto per distinguere le vittime dai carnefici.

Almeno nel Giorno della Memoria.

 

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