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Geopolitica degli Emirati Arabi Uniti – parte 1

Articolo di Pasquale Noschese e Aurelio Poles

Introduzione

Cent’anni fa il territorio della Penisola Arabica attualmente occupato dagli Emirati Arabi Uniti si riduceva ad una desolata distesa di sabbia punteggiata qua e là, lungo la costa, da sparuti villaggi di pescatori, i quali, in assenza di fonti alternative di reddito, erano soliti darsi alla pirateria. Oggi questo stesso territorio è occupato dal decimo Paese al mondo per reddito pro capite, con i villaggi di pescatori sostituiti da scintillanti megalopoli dagli edifici futuristici, al limite del fantascientifico. Per comprendere come sia stato possibile un cambiamento di tale portata è necessario adottare le lenti interpretative offerte dalla geopolitica. Ciò non solo consentirà di comprendere le origini della condizioni presente, ma permetterà anche di avanzare alcune previsioni sul futuro del Paese.

Prima parte : geopolitica del Golfo 

Al termine del secondo conflitto mondiale i Paesi dell’Europa e dell’Estremo Oriente risultavano enormemente provati a seguito delle recenti operazioni belliche: tessuti industriali e infrastrutturali gravemente danneggiati, popolazioni falcidiate e affamate, eserciti e marine allo sbando e decimati. Di contro l’economia degli Stati Uniti, in virtù della vastità e della ricchezza del Nord America, territorio nemmeno lontanamente sfiorato dal conflitto, era talmente prospera da contare per la metà di quella globale; l’esercito a stelle e strisce aveva occupato posizioni avanzate in entrambi i lati dell’Eurasia; la marina americana, risultava essenzialmente l’unico naviglio rimasto in grado di esercitare forza sui mari. Tutti gli stati belligeranti, “vincitori” e vinti si aspettavano che gli Stati Uniti avrebbero imposto un nuovo ordine mondiale basato sulla forma di dominio propria degli Imperi tradizionali. Storicamente una formazione Imperiale esercita il proprio dominio per mezzo del controllo fisico dei territori annessi. Centrale, nell’epoca imperial-industriale, era poi il controllo delle colonie, regioni che fungevano da fonte di materie prime e da mercato di sbocco per i prodotti fabbricati nei territori metropolitani; in tale contesto risultava fondamentale la sicurezza delle linee di collegamento, cioè la capacità di difendere fisicamente il naviglio commerciale e fare opera di deterrenza nei confronti di possibili azioni ostili.

Gli Stati Uniti tuttavia scelsero di percorrere una via nuova: invece di esercitare il proprio dominio per mezzo di un controllo militare diretto si attivarono per cooptare gli Stati satelliti per tramite di una duplice leva, economica e securitaria: da un lato veniva offerto libero accesso al mercato interno americano (garantendo così agli alleati la possibilità di una veloce ripresa economico-industriale), dall’altro si offriva il proprio ombrello atomico come garanzia di difesa dalla minaccia sovietica. Essenzialmente dunque Washington offriva ai satelliti prosperità e sicurezza in cambio della sottomissione totale alla propria strategia. Tale disegno, esposto alla conferenza di Bretton Woods, aveva come chiave di volta il controllo dei mari e degli oceani da parte della marina statunitense, la quale si faceva dunque garante di ultima istanza di un sistema economico (libera circolazione di merci, persone e informazioni) e securitario (possibilità di interferire nei meccanismi di libera circolazione nonché, ovviamente, posesso del più importante arsenale atomico dell’alleanza). Le potenze asiatiche, e soprattutto quelle europee, costrette a cedere tutte le colonie ed a rinunciare ad ogni velleità imperiale, si rendevano così totalmente dipendenti dagli americani. Bastone e carota, cioè rispettivamente ombrello atomico ed apertura del mercato interno statunitense con protezione delle rotte commerciali marittime. Il risultato fu l’asservimento degli apparati politici, economici e militari dei Paesi membri alla strategia di Washington.

Entro il quadro della Grand Strategy americana vi era un particolare tipo di bene che gli Stati Uniti dovevano rendere accessibile a se stessi e ai Paesi alleati, non solo per garantire un certo livello di benessere ai cittadini del mondo libero, ma soprattutto per rendere possibile l’operatività strategica dell’alleanza. Questo bene chiave era il petrolio, il quale funge da fonte energetica imprescindibile per le attività di uno Stato moderno, industrializzato. È proprio per questo motivo che divenne così fondamentale quella regione del globo occupata dal Golfo Persico. Essa divenne la riserva energetica degli alleati euroasiatici degli americani e, in parte, degli Stati Uniti stessi, con Washington che si rese garante di ultima istanza della rete di approvvigionamento attraverso il proprio apparato militare e securitario. 

L’ascesa ed il successo dei Paesi del Golfo, EAU compresi, ha dunque come imprescindibile condizione di possibilità l’ordine globale a guida americana, oggi anche noto con il termine più edulcorato di globalizzazione. Solamente tramite l’apparato securitario che rende possibile il libero commercio e superfluo il controllo delle linee e delle fonti di approvvigionamento infatti i Paesi di tale regione hanno potuto capitalizzare sulle proprie riserve di idrocarburi e svilupparsi come entità politiche autonome. In assenza dell’azione americana tali regioni, come insegna la storia, finirebbero per tornare in balia delle dinamiche di un’area che è tradizionalmente contesta tra le uniche due realtà regionali in grado di dare luogo a civiltà dotate di un determinato peso critico a livello geopolitico. Dai tempi dei conflitti tra gli Imperi Romano d’Oriente e Sasanide fino a quelli degli scontri tra gli Imperi Ottomano e Safavide, gli unici due territori del Medio Oriente che si sono dimostrati capaci di supportare delle società sufficientemente prospere da estendere il proprio dominio sulle regioni limitrofe sono stati quelli che hanno avuto sede rispettivamente nell’altopiano anatolico e in quello iranico. Ancora oggi la dipartita degli statunitensi vorrebbe dire la calata in Medio Oriente di Turchia e Iran, che, a conferma della lezione offerta dalla storia, risultano tutt’oggi gli unici attori regionali capaci di perseguire una strategia geopolitica pienamente autonoma e di una certa caratura. I Paesi del Golfo infatti non solo mancano di confini ben difendibili, ma il loro territorio, privo di qualsiasi risorsa ulteriore al petrolio, non è nemmeno in grado di sostenere una demografia dotata di un peso specifico rilevante. L’ordine mondiale statunitense è quindi condizione di prosperità di tali Stati proprio perché ha permesso a questi non semplicemente di entrare a far parte di un mercato globale, ma prima di tutto di esistere, senza cioè divenire province dei più importanti attori regionali.

È proprio da questo quadro geopolitico di ampio respiro che è necessario prendere le mosse se si intende comprendere la strategia degli Emirati Arabi Uniti, la quale, in fin dei conti, può essere riassunta in un semplice principio. Se infatti Abu Dhabi ha come condizione di possibilità della propria prosperità l’ordine mondiale a guida americana allora è imperativo fondamentale difendere e rafforzare con ogni strumento possibile tale ordine, ovviamente mettendo al centro il ruolo in esso assunto dagli Emirati stessi in modo da ottenere più vantaggi possibile. Fare ciò significa assumere una posizione proattiva, prendendo in appalto una serie di compiti di natura securitaria funzionali al mantenimento dell’ordine globale americano; solo in tal modo infatti è possibile ricavare anche un margine di azione individuale funzionale a perseguire il proprio interesse particolare, anche a lato di quello statunitense.

1 – Continua

 

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