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Genocidi dimenticati: Darfur, Timor Est, Ruanda

Di Andrea Grieco

Affinchè non muoiano mai più. Per non dimenticare

La Giornata della Memoria è una ricorrenza istituita dal Parlamento italiano in ottemperanza alla proposta internazionale di dedicare il 27 gennaio alla commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Il concetto di olocausto, dal greco holos, “completo”, e kaustos, “rogo”, come nelle offerte sacrificali, venne introdotto alla fine del XX secolo per indicare il tentativo nazista di eliminare i gruppi di persone “indesiderabili”: ebrei, etnie come rom sinti, comunisti, omosessuali, disabili e malati di mente, Testimoni di Geova, russi, polacchi e altre popolazioni di origine slava. Il vocabolo Shoah, che in lingua ebraica significa “distruzione”, o “desolazione”, o “calamità”, nell’accezione di una sciagura improvvisa e inattesa, è un’altra versione usata per indicare l’Olocausto.

Molti rom usano l’espressione Porajmos, ”grande divoramento” o Samudaripen, ”genocidio”, per definire lo sterminio nazista. Sommando agli ebrei queste categorie di persone il numero delle vittime del nazismo è stimabile tra i 10 e i 14 milioni di civili, e fino a 4 milioni di prigionieri di guerra.

Oggi il termine “olocausto” è usato anche per esprimere altri genocidi, avvenuti prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale, per designare qualsiasi strage volontaria e pianificata di vite umane. Il genocidio è qualcosa di aberrante,di estremamente forte: da qui nasce la necessità di ricordare “per non dimenticare”. Purtroppo molti sono gli stermini di massa che sono passati e che passano inosservati.dar

Il Darfur è una regione situata all’ovest del Sudan, nel deserto del Sahara. È in maggioranza costituita da popolazioni musulmane, come nel resto del nord della nazione, salvo alcune etnie che abitano il sud della regione che sono animiste. Il territorio è suddiviso in tre province. Dal 2003 il Darfur è teatro di un feroce conflitto che vede in conflitto la maggioranza nera e la minoranza araba (però maggioranza nel Sudan). Iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janjaweed, un gruppo di miliziani reclutati fra i membri delle locali tribù e la popolazione non Baggara della regione. Il governo sudanese, pur negando pubblicamente di supportare i Janjaweed, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit.

Le stime sul numero di vittime del conflitto variano a seconda delle fonti da 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) a 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, i termini di “pulizia etnica” e di “genocidio”.timor

 

Timor Est. In seguito all’invasione indonesiana di questo stato del sud-est asiatico, si è registrato lo sterminio violentissimo di oltre 250.000 persone in meno di cinque anni. L’offensiva condotta dall’esercito invasore puntava all’annientamento di Timor Est nel massacrando la popolazione a più riprese, provocando carestie e arrivando addirittura alla limitazione delle nascite tramite la sterilizzazione forzata delle donne.

Si è condotta la distruzione ragionata del sistema agricolo e intere famiglie di contadini, che prima abitavano sparsi sul territorio e sulle montagne, sono state trasferite in villaggi strategici per essere meglio controllate ed affamate. I timoresi perseverano nella resistenza grazie anche al sostegno della popolazione e della Chiesa Cattolica. Intanto le autorità procedevano anche ad una vasta opera di infiltrazione etnica spostando masse di contadini poveri da Bali e Giava sulle migliori terre sottratte ai timoresi nel tentativo palese di rendere il popolo autoctono una minoranza sulla propria stessa terra.

Il governo provò anche ad offrire posti di lavoro in altre isole dell’arcipelago al fine di disperdere il più possibile la popolazione timorese ma, quando ciò non risultò sufficiente, ricorse senza remore alla deportazione di massa. Il conteggio delle vittime risulta difficoltoso a causa del serrato blocco sull’informazione imposto dal regime di Giakarta. Nel 1975 si parlava del 10% della popolazione uccisa, nel 1979 del 15% mentre nel 1988 la cifra si attestava a circa il 30%. Il Dipartimento di Stato stima le perdite in numero compreso tra 100.000 e 200.000 morte di fame o a causa degli effetti degli agenti chimici e defolianti. I dati ci confermano che gli indonesiani hanno attuato uno dei genocidi peggiori della storia.

ruanda

 

Il Ruanda è il paese più densamente popolato dell’Africa, il 90% della popolazione è impegnata nell’agricoltura. La tradizionale divisione fra Tutsi e Hutu non ha origini etniche (i due gruppi condividono lingua, religione e gerarchie politiche), ma economiche: i Tutsi sono storicamente allevatori, gli Hutu agricoltori e dunque considerati socialmente inferiori. Il passaggio da un gruppo all’altro era però possibile semplicemente mutando mestiere. In epoca coloniale i Tutsi diventano l’élite del paese: per volontà dei Belgi, che governano il Ruanda dal 1885 al 1962, solo uno dei due gruppi ha accesso alla scolarizzazione e alle professioni. Di qui nasce un odio reciproco che sfocia in conflitto armato nel 1990 e poi nel genocidio. Fra aprile e giugno 1994, un milione fra Tutsi e Hutu moderati cadono sotto i colpi di machete degli estremisti, senza che la comunità internazionale faccia nulla per impedire la strage. Due milioni di abitanti trovano la salvezza rifugiandosi nei paesi confinanti.
Su una popolazione di 7.300.000, di cui l’84 % hutu, il 15 % tutsi e l’1 % twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone uccise in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto). Altre fonti parlano di 800.000 vittime. Tra loro il 20% circa è di etnia hutu. I sopravvissuti tutsi al genocidio sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e oggi sieropositive. 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali sono diventati capifamiglia.

Difficilmente ci sarà giustizia per tutte le vittime di queste violenze inaudite che sono già finite nell’ oblio. La diplomazia e gli interessi valgono di più di miliardi di vite spezzate. Ma ricordarle, rispettare la loro memoria, il loro dolore, almeno non le farà morire di nuovo. Perché potranno vivere in noi, nel nostro minuto di silenzio.

 

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