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Frustami ancora che mi piace

In ossequio all’environmental correct da anni non si pratica più il tiro al piccione, sostituito dal tiro al piattello, molto più meccanico, molto più asettico. Non è invece tramontato il tiro al piccione ferito, soprattutto se il volatile spiumazza controvento piuttosto che a favore. E’ l’altra faccia della generosità degli italiani verso i più deboli.

Scorrendo i commenti sui risultati delle elezioni c’è una specie di sottile compiacimento sulla perdita di molte regioni "rosse", del tutto comprensibile in chi sta dall’altra parte, meno per chi è sulla stessa barca che imbarca acqua. Il masochismo è l’atavica malattia della sinistra o, se preferite, una specie di processo di scissione nucleare, dai tempi di Gramsci in poi: il Partito Socialista dal Partito Comunista, il gruppo del Manifesto dal PCI, poi il PSIUP, il PSDI dal PSI, il PS e il SDI dal PSI, e qui mi fermo.

Da diverse parti si ricomincia a rimettere in discussione la segreteria Bersani: alle primarie ho votato Franceschini, ma una volta fatta la frittata non si può buttarla via, bisogna mangiarsela fino alla fine. Possiamo correggerla, ma non si può sprecare il cibo, almeno finché non abbiamo di meglio da mettere sotto i denti.

Che Bersani non sia il massimo per fronteggiare la situazione attuale è pacifico: la sua storia personale dimostra che è un ottimo amministratore, ma sicuramente non è Barak Obama, ma chi lo è nel panorama nazionale? Grillo? Ferrero? Rizzo? Di Pietro? Mussi? Pecoraro Scanio? Quindi accontentiamoci per il momento del pan bagnato.

E’ vero che in politica la faccia conta molto: ne sa qualcosa Castelli, trombato nella sua Lecco leghista, non perché non sia considerato valido, ma perchè - a detta dei suoi - presuntuoso ed arrogante. Un po’ come D’Alema. Ma altrettanto vero è che servono moltissimo le parole e come sono dette. Gli esempi più chiari sono Di Pietro e, ultimo arrivato, Beppe Grillo. Ai "puri e duri" Veltroni appariva un pappamolla: la sua campagna elettorale, basata sulla non menzione del nome dell’avversario, è suonata come rinunciataria.

Insomma, gli italiani sono un popolo di tifosi. Non si può andare allo stadio per applaudire o fischiare: bisogna distinguersi in curva con lo striscione più offensivo e meglio, fin quando si è potuto, con il mortaretto più deflagrante. La Lega per esempio lo ha capito. Per ottenere qualche poltrona nei consigli di amministrazione delle banche o delle municipalizzate, o per trovare un lavoro al "trota" per anni hanno minacciato la secessione del nord.

Non serve un programma che vada dalla salvezza del pianeta ai distributori di profilattici nei licei: sono importanti solo una, due o al massimo tre parole d’ordine - ripetute all’infinito come insegna mister B - per spuntarla. E soprattutto occorre uscire tra la gente, parlare con la gente e capire quello che vuole la gente, non capire quello che vogliamo sentirci dire. Tutto qui. Ma forse non siamo d’accordo neanche su questo.

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