Fine agosto 2021 a Kabul
L’immagine entra nella Storia, sebbene sia un’ingloriosa storia con la minuscola. L’omino tinto di verde sotto l’effetto ottico del puntatore laser è l’ultimo occupante statunitense che s’invola via. Non un marine qualsiasi, è il generale Chris Donahue, comandante della 82° divisione aviotrasportata, trasportato anche lui, stavolta verso casa.
Il raid di domenica scorsa che, nella versione del Pentagono, ha colpito una vettura su cui viaggiavano dei kamikaze ha contestualmente spazzato via dieci civili afghani. Sette erano bambini. Faisal, dieci anni, Farzad, nove, Armin, quattro, Benyamin, tre, Ayat e Sumaya, due ciascuno. Che assieme ai genitori non lasceranno il Paese, su quella terra hanno lasciato la vita. E anche una delle vittime Naseer, trent’anni, ufficiale dell’esercito afghano che aveva il lasciapassare e si sarebbe imbarcato su un C-130 direzione Stati Uniti per un matrimonio, non ce l’ha fatta. Non è rientrato fra i 117.000 evacuati per starsene lontano dalle bombe. Mai dire mai, poiché il viaggio dal territorio in guerra duratura a quello dove la guerra è un simbolo identitario è un percorso incerto, specie se chi deve salvarti vuole mostrare di non essere un perdente. L’eredità mortifera che l’avventura bellica americana si lascia alle spalle si specchia nello sfacelo che ha teorizzato, predisposto, generato. Un’atomica sui sentimenti di trentotto milioni di afghani in esistenza precaria, anche se il generale fluorescente e il replicante del Pentagono pensano di essere uomini e forse eroi.
Enrico Campofreda
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