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Fiat: Una storia che si ripete

Un fantasma aleggia su Torino. Sono passati 30 anni dalla marcia dei 40 mila, operai ed impiegati della Fiat che volevano tornare a lavorare, molti cittadini (commerciati, artigiani etc) stanchi di una città messa sottosopra da 35 giorni di scioperi, blocchi, violenze, morti assassinati dalle Brigate Rosse, e poi picchetti ai cancelli per impedire l’accesso in fabbrica, e la città sembra ripiombata in quel clima. La ‘guerriglia verbale’ tra i favorevoli all’accordo e gli oppositori la cui idea nuova mai ipotizzata in 110 anni di storia della Fiom è il ricorso alla magistratura, cresce di giorno in giorno alimentata strumentalmente da chi vuol lucrare ‘gloria’ per se stesso o cerca delle ‘rivincite’ da una vicenda squisitamente sindacale e di relazioni sindacali. Bruno Trentin colui che ricostruì la Fiom riportandola ‘in fabbrica’ dopo le drammatiche elezioni delle commissioni interne del 1955, di certo, sarebbe saltato sulla sedia di fronte all’idea del ricorso al pretore del lavoro o al disconoscimento del voto del referendum.

Bruno Trentin, colui che ricostruì ‘il ritorno in fabbrica’ e fece crescere la Fiom dopo la sconfitta nel 1955 alle elezioni delle commissioni interne nella Fiat di Vittorio Valletta, non sarebbe mai ricorso al linguaggio dai toni minacciosi di Giorgio Cremaschi, "se al referendum dovessero vincere i sì, ci rivolgeremo alla magistratura", né a quelli arroganti di Maurizio Landini, “l’accordo deve saltare: noi quell'accordo non lo firmeremo mai”. E quella Fiom, aiutata da una certa aristocrazia operaia, contrattava, conoscendola, l’organizzazione del lavoro. Si sarebbe, di certo, ritrovato, per il linguaggio dai toni realistici e fermi, nelle considerazioni di Susanna Camusso: "se non restiamo dentro le fabbriche rischiano di essere 'dipendenti' (dai magistrati ndr) […] Per me il cuore della contraddizione sta nei processi produttivi e se non si riparte da lì si resta fuori, non si ricostruiscono le condizioni per ripartire e costruire un'altra storia e altre condizioni di lavoro". Perche’, “il punto di partenza era che l’alienazione del lavoro si superava cambiando l’organizzazione del lavoro, non fuori da essa”, sosteneva Trentin e prendenva cosi’ le distanze da Palmiro Togliatti, geniale maestro della ‘doppiezza’, che in un intervento al Cc del Pci, aveva sentenziato: “non spetta ai lavoratori prendere iniziative per promuovere e dirigere il progresso tecnico”.

La contestazione di Trentin in una lettera del 1957 indirizzata al Migliore ‘fedele servitore’ di Stalin: “Francamente noi pensiamo che la lotta per un controllo e un giusto indirizzo degli investimenti nelle aziende presupponga in molti casi una capacità di iniziativa da parte della classe operaia sui problemi connessi con il progresso tecnico e la organizzazione del lavoro che tenta di sottrarre al padrone la possibilità di decidere unilateralmente sulla entità, gli indirizzi, i tempi di realizzazione delle trasformazioni tecnologiche e organizzative. Una simile iniziativa, appare, almeno a noi, come la condizione, in molti casi, per poter dare alla contrattazione di tutti gli elementi del rapporto di lavoro (e quindi anche dei tempi di produzione, degli organici e delle stesse forme di retribuzione) un suo contenuto effettivo: poiché la nostra impossibilità di contrapporre ad un dato indirizzo degli investimenti aziendali un nostro indirizzo porrebbe dei limiti sostanziali agli sviluppi della contrattazione aziendale”.

In questa lettera c’è già tutto quel che succederà nell’autunno caldo: con Pierre Carniti (Fim) e Giorgio Benvenuto (Uilm), Trentin conquistò il primo contratto collettivo nazionale di lavoro dei metalmeccanici con cui si introdusse il diritto allo studio, le 150 ore di formazione continua.

Si deve poi osservare lo stile composto di Pier Luigi Bersani: invita l’ad di Fiat-Chrysler, Sergio Marchionne, “a misurare le parole”, poi tira le orecchie al ‘miliardario’ Premier Berlusconi: dica le proposte di ‘politica industriale’ del Governo, e lo fa senza invadere il campo altrui, quello dei sindacati. Chiede il rispetto del voto del referendum sull’accordo e non va a Mirafiori. Diversamente da alcuni falchi pronti ad avventarsi sulla preda ferita. Dal ‘giustizialista’ Antonio Di Pietro, consigliato in materia di lavoro da Maurizio Zipponi, ex dirigente della Fiom di Brescia, poi rifondarolo, con cui Landini ha un stretto rapporto (Tra l’altro, Zipponi conosce bene l’Eni per aver svolto un proficuo lavoro, da componente della Commissione Attività Produttive della Camera nell’ultimo Governo di centro-sinistra di Romano Prodi, contro lo scorporo di Rete-Snam Gas sollecitato dall’Autorità per l’Energia). Al ‘poeta’ di Terlizzi, Nichi Vendola, emulo di Enrico Berlinguer che il 26 settembre 1980 promise agli operai in lotta: “se occuperete Mirafiori, il Pci vi appoggera’”.

La Fiat pure allora se la passava male: chiese al governo di poter licenziare una quota dei dipendenti in esubero e di svalutare la lira, per non essere strozzata dal cambio con le valute forti e continuare a esportare le auto. La ‘cura da cavallo’ proposta dall’ad di allora, Cesare Romiti, prese forma l’11 settembre 1980 con l’annuncio di metter fuori 14.469 dipendenti. Quella vertenza dell’80 brucia ancora e aleggia come un ‘fantasma’. I 35 giorni di ‘lotta dura, senza paura’ durante i quali furono uccisi sul nascere tutti i tentativi di un accordo, arrivarono alla forma estrema dei picchetti ai cancelli, duramente contestati da Trentin, per impedire l’accesso in fabbrica. “I picchetti erano fatti da gente allegra, che si divertiva. Cantavano. Giocavano a carte. C’erano delle ragazze. Non mi sembravano persone alle prese con un dramma. Non erano di certo operai Fiat che in quel momento vivevano nell’angoscia di perdere il lavoro. Quelli erano i soliti duemila professionisti del sindacato, che recitavano una parte politica. Tornai a casa rincuorato. E pensai che forse le cose si sarebbero messe meglio per noi”, ha raccontato Romiti ed ebbe ragione.

Il blocco di Mirafiori evaporò il 14 ottobre davanti al corteo dei quarantamila operai e impiegati che volevano tornare al lavoro e di molti cittadini torinesi (commercianti, artigiani etc) stanchi di una città messa sottosopra. Per quella Fiom ‘sandinista’, guidata da Claudio Sabattini, fu una sconfitta memorabile. 

Una storia, dunque, che si ripete di fronte al piano della newco di Sergio Marchionne? Ci sono elementi, molti e preoccupanti, che fanno propendere per il sì. C’è una Fiom ‘sandinista’ nei suoi massimi dirigenti (Landini e Cremaschi), antagonista e capace di dire soltanto di no, dove, dopo l’era ‘riformatrice’ di Trentin, è stata bandita la cultura ‘riformista’. L’unica ‘idea’ nuova che in 110 anni di storia dei metalmeccanici non era mai comparsa è “il ricorso ai tribunali per tutelare la classe operaia”. C’è poi una ‘sinistra’ vecchia, che non riesce a liberarsi dal ‘togliattismo’, dalla ‘doppiezza togliattiana’ per cui dice una cosa (benessere dei lavoratori) e ne fa un’altra (abdicare al suo ruolo, non sporcarsi le mani) e tra ‘narrazioni’ e ‘poesie’ senza senso, affoga nella propria cecità. Ci sono poi alcuni intellettuali radical-chic, elevati a maitre à penser, con la biro sempre in mano per firmare appelli e partecipare a ‘fiaccolate’ contro la ‘fine’ della democrazia e della libertà, ossessionati dall’incubo di ‘Hannibal ad portes’.

Un film in gran parte già visto, dunque. Tranne un dettaglio non da poco. Sulla scena manca, per fortuna, un protagonista sanguinario: le Brigate rosse che allora sparavano, gambizzavano, uccidevano, al riparo di un ribellismo isterico. Si ricordi, ad onor di cronaca, che il 21 settembre 1979, la colonna torinese delle Br uccise sotto casa l’ingegner Carlo Ghiglieno, responsabile della pianificazione del Gruppo auto e che 17 giorni dopo, l’8 ottobre, la Fiat licenziò 61 operai, considerati tra i più violenti. La Fiom e pezzi della sinistra, a cominciare dal Pci, insorsero contro questa rappresaglia fascista.

Si può condividere l’ironica affermazione di Angelo Pichierri, uno dei principali studiosi della società industriale e post-industriale: “La deriva della Fiom è un incrocio fra il dipietrismo di oggi e il massimalismo di Arthur Scargill che nel 1984 guidò i minatori inglesi alla sconfitta finale con Margaret Thatcher”. Con una chiusa: prima del massimalismo di Scargill va menzionato quello di Vendola che dopo aver trascorso 35 anni a ‘pane e Togliatti’, nonostante il fallimento del comunismo decretato dal crollo del Muro di Berlino dell’89, viene proposto mediaticamente come ‘l’uomo nuovo della sinistra’, forse, perché rivendica il suo ‘catto-comunismo’ che non apporta cambiamenti, lo dimostra la storia della Repubblica, ma solo mantenimento dello ‘status quo’.  

E allora? Bisogna riflettere attentamente su questa calda e intelligente affermazione del ‘giellista e azionista’ Trentin che c’è da giurarci può esser condivisa tanto da Bersani quanto dalla Camusso: “Che cosa resta del socialismo? Anche questo quesito deve trovare risposta in una ‘sinistra del progetto’. Certo, il socialismo non è più un modello di società compiuto e conosciuto, al quale tendere con l'azione politica quotidiana. Esso può essere concepito soltanto come una ricerca ininterrotta sulla liberazione della persona e sulla sua capacità di autorealizzazione, introducendo nella società concreta degli elementi di socialismo - le pari opportunità, il welfare della comunità, il controllo sull'organizzazione del lavoro, la diffusione della conoscenza come strumento di libertà - superando le contraddizioni e i fallimenti del capitalismo e dell'economia del mercato, facendo della persona il perno di una convivenza civile”.

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