Femminismo “pop” e femminismo popolare
Qualche spunto di riflessione e la nostra esperienza quotidiana nella lotta antisessista
di Ex-OPG occupato "Je so' Pazzo"
In queste pagine vorremmo provare a fare due cose: a contribuire, nel nostro piccolo, al dibattito (che per fortuna negli ultimi anni si è fatto sempre più diffuso e capillare) sulle questioni di genere e a mettere in evidenza un metodo di intervento e alcune proposte, emerse a partire dalla nostra pratica quotidiana.
Nessuna ricetta o pretesa di avere la verità in tasca, ma solo un bilancio, utile al nostro interno e che speriamo possa servire per essere condiviso e discusso con altri.
Prima di tutto ci presentiamo: da due anni abbiamo occupato un ex ospedale psichiatrico giudiziario a Materdei, un quartiere popolare di Napoli. In questo spazio immenso abbiamo dato vita, consolidando e allargando via via il nucleo “storico” degli occupanti, a molte iniziative e campagne e teniamo in vita settimanalmente circa una quarantina di differenti attività che vanno dai corsi sportivi all’ambulatorio medico, dai laboratori artistici allo sportello legale, dal doposcuola allo sportello di ascolto, dalla scuola d’italiano alla lotta alla povertà. Tutte queste attività ci danno l’occasione di entrare in contatto quotidianamente con un numero consistente di persone, non solo di attivisti o militanti che collaborano in maniera continuativa ai progetti, ma di “utenti” (ci si perdoni il termine così impersonale) che si rivolgono a noi per soddisfare bisogni ed esigenze molto differenti. Questa interlocuzione e collaborazione costante con centinaia di persone – uomini e donne, adulti e bambini, stranieri ed italiani – ci ha posto la necessità di un’analisi quanto più concreta possibile della contraddizione di genere (e non solo) e l’urgenza di rimettere in discussione e al vaglio molti punti che credevamo saldi nella nostra riflessione complessiva sulla questione.
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1. Femminismo “pop” e femminismo popolare
2. Una lotta comune?
3. La nostra esperienza quotidiana (lotta alla povertà, settore migranti, camera del lavoro e sportello medico)
Femminismo “pop” e femminismo popolare
Le prime domande che crediamo sia necessario porci riguardano cosa consista oggi una pratica antisessista popolare e di massa, quali siano i nostri compiti e quali gli strumenti efficaci per diffondere e, perché no, vincere le nostre battaglie.
Violenza sulle donne, sessismo, lotta per i diritti: negli ultimi anni sembra essersi diffusa sempre di più la consapevolezza che la disuguaglianza tra i sessi non è un capitolo chiuso, storia passata, ma una faccenda che ci riguarda e che ci riguarderà ancora se non ci rimboccheremo le maniche per far sì che le cose cambino. La diffusione di questo messaggio passa per i canali più disparati e il suo dilagare oltre le cerchie ristrette del movimento, dei circoli intellettuali, non può che essere visto come una conquista e un’occasione importante per chi come noi ha da sempre lavorato perché questo accadesse. Si va dalle Women’s March contro Trump delle scorse settimane, alle dichiarazioni di Beyoncé, dalla denuncia dei gruppi facebook che inneggiano allo stupro punitivo e alla “rivincita del maschio”, alla cellulite di Lena Dunham messa in bella mostra sulle copertine delle riviste.
Queste manifestazioni più o meno efficaci e spettacolarizzate della lotta antisessista e contro modelli definiti dall’alto è solo l’espressione più visibile e compatibile di un movimento molto più ampio e radicale che non nasce oggi e che ha combattuto e vinto molte e importanti battaglie. Di questo movimento ci sentiamo parte integrante come donne e in particolare come donne che aspirano ad essere rivoluzionare, a sovvertire una realtà che ci offre solo disuguaglianza e sfruttamento. Quindi senza nessuno snobismo o desiderio di distinzione fine a se stesso, pensiamo si debba sfruttare fino in fondo quest’occasione provando però a capire qual è la differenza tra un femminismo popolare e un femminismo “pop”, tra il “trend” più o meno passeggero e la lotta di lunga durata che è necessario condurre, in modo da riuscire ad individuare la direzione nella quale dobbiamo dirigerci e le trappole da evitare.
Negli ultimi due secoli tutti i movimenti che hanno combattuto per la trasformazione dell’esistente si sono organizzati attorno ai poli di uguaglianza e libertà, ma questo secondo termine spesso rischia di essere collocato in uno spazio vuoto, come se avesse valore in sé, di essere utilizzato in maniera acritica. Si sente spesso dire che fondamentale è la libertà per le donne di “essere ciò che vogliono” – astronaute e casalinghe, atee e praticanti, vestitissime e spogliatissime – ma questo modo di intendere la libertà, ci sembra carente sia da un punto di vista concreto che simbolico:
- In primo luogo, banalmente, ci sembra che talvolta si trascuri il fatto che il volere essere e il poter essere siano strettamente collegati; non è nel cielo delle idee, ma nella realtà concreta che si decide a cosa posso aspirare e cosa posso diventare, a partire da precise condizioni materiali. Questo volere astratto, questa libertà senza freni somiglia allora di più a quella del neoliberismo che a quella della rivoluzione (rimanda ad Angela Merkel più che a Angela Davis!). La sacrosanta battaglia per i diritti – formali – deve tener dentro allora necessariamente la battaglia per poterli praticare effettivamente, se le separiamo, badiamo solo all’uno o all’altro aspetto, rischiamo di attribuire alla singola donna la responsabilità, la colpa o il merito della propria realizzata o mancata emancipazione.
Dopo il Self Made Man, capace di emergere nello spietato mercato del lavoro e perciò, nella mentalità corrente, degno di ogni rispetto, rischiamo di creare, più o meno consapevolmente, la Self Made Woman, il mito della donna capace di liberarsi da sola dalle catene dell’oppressione (realizzandosi sul lavoro o liberandosi dalle convenzioni sociali, poco importa), per lei onori, per tutte le altre vergogna. Questo dispositivo di liberazione individuale non solo spesso determina un’attitudine giudicante nei confronti di “quelle che non ce l’hanno fatta”, ma replica, sul piano dell’emancipazione femminile, lo stesso discorso individualizzante e mistificatorio che viene applicato riguardo all’oppressione di classe.
Non è un caso che sia questa libertà ad occupare più spazio nel dibattito mainstream: se infatti, in linea di massima, la libertà individuale riguarda i margini relativi che il capitalismo lascia alla scelta e all’azione del singolo, la libertà collettiva (che va verso un modello universale, che riguarda un’azione organizzata, che ha un orizzonte emancipativo generale) è invece sempre in qualche modo collegata al sovvertimento dell’ordine vigente. Così lo Choice Feminism (secondo cui ho il diritto di scegliere per me stessa, come meglio credo e senza condizionamenti) non può che porsi – per non risultare una delle ennesime varianti della libertà nel e per il Capitale – nell’orizzonte di un movimento complessivo e di classe, che pretende non solo la libertà e l’uguaglianza per tutti, e dunque per le donne, ma che conquista le condizioni perché queste possano essere concretamente praticate.
Non basta l’uguaglianza (formale), nemmeno la libertà (“mentale”), è necessaria la giustizia e l’equità sociale, se si lotta per le une non si può, contemporaneamente, non lottare anche per le altre. Per questa ragione, come proveremo a dire anche in seguito, non crediamo che la lotta antisessista possa essere un cammino a sé, separato dalla lotta per la trasformazione dell’esistente, ma pensiamo che i due percorsi siano necessariamente e concretamente intrecciati.
Di rimando, ci sembra che il concetto di libertà non soltanto sia vincolato a quello di possibilità materiale, ma anche al contesto culturale/simbolico nel quale si è immerse. E allora non soltanto non possiamo essere libere se siamo materialmente inchiodate ad una condizione di subordinazione economica e sociale, ma dobbiamo diffidare del concetto di libertà come elemento astratto, relativizzato all’estremo. Affermare che “ciascuna di noi deve essere libera di essere come vuole” non significa ignorare che questa libertà di scelta si colloca necessariamente all’interno di una gamma di modelli e ruoli sociali che ci precedono, che preesistono al momento stesso della scelta. Il nostro lavoro politico dovrebbe allora riguardare non l’astratta libertà di scegliere, ma la promozione di alcuni modelli e lo smantellamento di altri, ancora una volta non muovendoci su un piano morale o moralizzante, ma concreto. Essere libera di essere “mamma a tempo pieno” o “donna in carriera” significa poco o nulla in una società nella quale entrambe le possibilità non sono solo contemplate, ma, tutto sommato, reggono l’equilibro generale di un sistema. Il capitalismo non è infatti, per principio, sessista, come non è razzista, se non nella misura in cui può sfruttare o mettere a valore la “differenza”.
Così il punto, ci sembra, non è tanto quello di poter scegliere tra i modelli a disposizione, ma individuare e sostenere con forza quelli che mettono in crisi un meccanismo di subordinazione, di “naturalizzazione” e sfruttamento della differenza. Sappiamo che questa affermazione può suonare in controtendenza, ma una libertà ad essere “qualsiasi cosa” non ci sembra poi così auspicabile, se quella libertà perpetua un modello di oppressione.
Ancora una volta non si tratta di assumere un approccio moralistico o “giudicante”, piuttosto di trovare il sistema di valorizzare il protagonismo femminile, di declinare la libertà come pratica contro e oltre e non interna e compatibile al sistema nel quale viviamo.
Una lotta comune?
La libertà non è dunque uno spazio vuoto in cui mi muovo, individualmente, da riempire, è uno spazio pieno nel quale posizionarsi assieme ad altri – e contro altri ancora, se è per questo - una conquista collettiva che è anche e soprattutto, di parte. Compito di un movimento è dunque essere “pop” (nel senso di diffuso, capillare), ma non dimenticare la sua vocazione “popolare”: produrre consenso, ma anche radicalità, farsi rappresentante di questi interessi e bisogni di parte, di classe, partire dal basso per elaborare riflessioni e rivendicazioni che siano sentite e comprese dalle masse. Così ben venga la Emma Watson di turno che ci ricorda quanto è glamour essere femministe, che fa risuonare su canali per noi irraggiungibili parole d’ordine che riecheggiano le nostre, ma teniamo alta la guardia e proviamo a non accontentarci di questa versione annacquata e interclassista delle nostre battaglie, così come a non arroccarci su posizioni indigeribili e incomprensibili ai più. Facciamo di questa occasione, la nostra occasione.
Per coglierla è necessario, a nostro avviso, prima di tutto:
- mettersi all’ascolto e avere una vocazione maggioritaria, possibilmente essere semplici, concrete e dirette nella comunicazione delle nostre istanze, nelle pratiche e nel linguaggio che scegliamo di utilizzare;
- rivedere i meccanismi che, all’interno dei movimenti, finiscono per inibire la partecipazione e depotenziare le lotte.
Sul primo punto torneremo più avanti quando proveremo a ragionare sulle pratiche che, tra mille errori, abbiamo provato a mettere in campo in questi anni. Su questo secondo punto invece, che richiederebbe da solo una discussione di pagine e pagine, proveremo ad abbozzare alcune riflessioni.
Leggendo alcuni scritti e interviste delle compagne curde, certamente modello di una liberazione femminile e di lotta a 360° sul loro territorio, ci è balzato all’occhio un passaggio che, nella sua semplicità, ci sembra dica qualcosa di illuminante: Il movimento femminista ha giustamente e duramente lottato contro la separazione tra pubblico (politico) e privato (apolitico) dicendo che il personale è politico, ossia che questa distinzione va combattuta ed eliminata. Ciononostante non ha raggiunto questo obiettivo, ha semplicemente capovolto il problema, mantenendo un genere diverso di distinzione, dove alle donne compete soltanto quella parte della politica che è associabile alla sfera privata: abusi, violenze, aborto, famiglia, ecc. È come se il risultato della lotta per affermare che il personale è politico si fosse risolta nella condizione in cui soltanto il personale può essere politico per le donne (Donne, etica e rivoluzione. Intervista alle compagne del Rojava. A cura di Infoaut e Radio Onda d’urto).
Spesso senza che questo venga programmato o deciso consapevolmente, noi donne militanti tendiamo ad occuparci più o meno esclusivamente di faccende che riguardano in senso più stretto la contraddizione di genere, proprio di quel “privato” nel quale hanno voluto per secoli ricacciarci. È scontato dire che la pratica quotidiana di ciascuna di noi non può che essere condizionata, nella scelta delle priorità e degli obiettivi, da ciò che sentiamo come esigenza più urgente da risolvere, come tema al quale siamo più “sensibili”. Eppure il paradosso, come ben esposto dalle compagne curde, è evidente. Proprio perché siamo consapevoli che la contraddizione di genere non è estranea a questo sistema nel suo complesso allora dobbiamo riprenderci tutto essere protagoniste nella lotta complessiva per la trasformazione dell’esistente e, complementarmente, “educare” i compagni che lottano con noi fianco a fianco. Educare? Sì. Perché se non comprendono che la nostra lotta è la loro lotta allora non hanno compreso nulla del meccanismo che dicono di voler combattere. Discutiamo fra di noi, capiamo come organizzarci, ma discutiamo anche e soprattutto con loro, non per costruire un’isola felice all’interno dei nostri spazi occupati, associazioni, collettivi, nella quale cercare di essere a riparo dalla violenza e dalla sopraffazione di genere, ma perché solo uniti possiamo vincere e perché altrimenti rischiamo di prendere per vere le linee di demarcazione che ci hanno imposto (quelle tra Stati, culture, generi e non tra oppressi e oppressori, come invece dovrebbe essere).
Non permettiamo che nessuno parli al posto nostro, ma non pensiamo nemmeno di poter condurre da sole una battaglia che è di tutti.
Ma quali possono essere le pratiche concrete che ci permettono di fare fronte comune? Non abbiamo ricette, ma pensiamo che, ancora una volta, le compagne curde possano esserci d’esempio: per prima cosa rendiamo visibile la nostra presenza attraverso un’equa rappresentanza [Il PKK ripartisce ogni posizione nell’amministrazione tra un uomo e una donna, dalle presidenze del partito ai consigli di quartiere, tramite il principio di co-presidenza (co-chair concept, lett. “seggio in comune”). (…) Piuttosto che rifiutare gli uomini o decostruire i ruoli di genere all’infinito, essa tratta le condizioni alla base di concetti attuali di femminilità come fenomeni sociologici e mira a ridefinire tali concetti formulando un nuovo contratto sociale. Essa critica l’analisi mainstream da parte del femminismo del sessismo in termini di solo genere, così come il suo fallimento nel raggiungimento di un più ampio cambiamento sociale, limitando la lotta nel quadro dell’ordine persistente. Una delle principali tragedie del femminismo è il suo cadere nella trappola del liberalismo. Sotto la bandiera della liberazione, l’individualismo estremo e il consumismo vengono propagandati come emancipazione, ponendo ostacoli evidenti a qualsiasi azione collettiva. Intervento di Dilar Dirik alla Conferenza “Sfidare la Modernità Capitalista II” Amburgo 3-5 Aprile 2015].
Non si tratta di riabilitare le “quote rosa” (non siamo una specie in via d’estinzione!), di una concessione o di un vezzo, ma solo di rendere visibile all’esterno, nel discorso pubblico, la nostra realtà per quella che è: fatta di uomini e di donne che lottano assieme, senza gerarchie né primati, senza bisogno di essere “relegati” in settori d’appartenenza. Siamo consapevoli di portare all’interno dei nostri gruppi tutte le contraddizioni che sono presenti nella società, che non possiamo annullarle o estinguerle di un colpo, ma dare rappresentanza, discutere assieme di ogni questione, anche di quelle considerate più strettamente “femminili”, mostrare ai compagni e alle compagne che militano da meno tempo che non saranno giudicati per l’aderenza o meno agli stereotipi – sia maschili che femminili – veicolati nella società (ostentare di non aver paura di fronte ad un pericolo, mostrarsi “virili” oppure al contrario essere “sensibili”, ordinate e precise) è già un buon modo per offrire loro uno spazio per costruirsi un proprio modello e un proprio protagonismo.
In alcuni contesti (ci auguriamo non in quelli strettamente militanti) si deve forse passare per una fase di separazione dei sessi (per questione di pudore, di disabitudine a relazionarsi con soggetti di sesso maschile), quando ad esempio ci sono condizioni di forte dipendenza economica e culturale dal modello patriarcale (da un punto di vista soggettivo o oggettivo). Sottolineiamo questo aspetto perché ci sembra che, se l’obbiettivo è lottare tutti assieme e comprendere che la lotta di genere non riguarda solo le donne, allora bisogna individuare, con spregiudicatezza, gli strumenti migliori per farlo in contesti e situazioni differenti. Crediamo che in alcune occasioni “discutere tra donne” o organizzarci tra di noi possa essere utile, addirittura indispensabile. Ma si tratta di casi abbastanza specifici (possiamo riportare l’esempio raccontatoci da una compagna emigrata in Belgio che lavora con la comunità islamica residente a Bruxelles che sottolineava che sarebbe praticamente impossibile parlare, in presenza di uomini, con donne che hanno subito violenze domestiche; è capitato anche a noi di verificare questa difficoltà in casi analoghi, con donne italiane e straniere, o quando, con i nostri sportelli, ci siamo occupate di casi di tratta o violenze sessuali) e l’obiettivo finale resta quello di rendere comune ogni lotta.
La nostra esperienza quotidiana di pratica antisessista
In questo quadro ci è sembrato utile – certamente per il nostro dibattito interno, e, ci auguriamo, anche per quello con altre realtà e attivisti – raccontare come si è articolata e come si articolerà concretamente nei prossimi mesi la nostra pratica antisessista. Pur avendo affrontato molte discussioni (per chi fosse interessato rimandiamo a due riflessioni venute fuori dal nostro dibattito interno: “La crisi ha il volto delle donne. Spunti di riflessione per un dibattito su violenza di genere e crisi economica” e “Contraddizione di genere e contraddizione di classe: piccola antologia pronta per l'uso”) e messo in piedi alcune campagne specifiche sulla contraddizione di genere, pensiamo che il modo più efficace per praticare l’antisessismo sia quello di declinarlo in tutte i nostri campi d’intervento e di farlo vivere quotidianamente anche in questioni che, solo apparentemente, sembrano distanti dai temi che vengono normalmente associati ad esso. Per questa ragione abbiamo pensato potesse essere utile analizzare alcuni “settori” nei quali operiamo e abbiamo chiesto ai responsabili di ciascuno di essi (tre su quattro sono donne, ma è un caso ;) ) come hanno sviluppato la pratica antisessista, quali problematiche hanno dovuto affrontare, quali sono le proposte concrete che hanno articolato (sul nostro sito prossimamente troverete la versione integrale delle “interviste”). In questo modo, piuttosto che teorizzarlo soltanto, abbiamo cercato di mettere in luce l’intreccio tra le pratiche antisessiste e tutti gli altri terreni di attività politica, ma soprattutto di evidenziare come solo attraverso l’inchiesta unita alla lotta sul campo sia possibile individuare non le vertenze o le questioni che a noi sembrano importanti, a partire da un dibattito che si fa spesso sterile e astratto e autoreferenziale (e questa è anche e soprattutto un’autocritica), ma quelle realmente “popolari”, nel senso nel quale abbiamo utilizzato nelle scorse pagine questo termine, ovvero quelle sentite, comprese e utili a tutti.
Lotta alla povertà
Nell’ambito della lotta che stiamo portando avanti in relazione alla condizione di povertà in cui versano sempre più persone, è stato possibile riscontrare una particolare situazione di genere? Qual è la situazione delle donne senza tetto, sia qualitativamente che quantitativamente?
Il 90% dei senza tetto sono maschi, questo perché la vita per strada per una donna comporta il costante rischio di una violenza o nei dormitori o per strada, quindi diciamo che spesso si inseriscono direttamente nel percorso di tratta e traffico di prostituzione.(…) Nei dormitori, che non sono separati avvengono molte violenze (ne abbiamo avuto testimonianze dirette) (…) Perché, essendo posti dove spesso non c’è un reale contatto personale o una conoscenza reciproca, alla fine diventano dei piccoli lager, dove la gente va a dormire, ma non c’è né controllo né reinserimento né sostegno, neanche a livello sanitario. Per una donna diventa oggettivamente rischioso essere da sola, magari con 100 maschi nello stesso dormitorio.
Ma quindi le donne che si ritrovano per strada sono sempre sole o col compagno?
Posso riportati due casi di cui abbiamo avuto esperienza diretta, ma che sono significativi e rappresentativi di una condizione generale: quello di una di una coppia di napoletani in cui lui faceva violenza psicologica e fisica su di lei (siamo riusciti a indicarle una via d’uscita e al momento la situazione è migliorata); poi abbiamo avuto il caso di una ragazza nigeriana (…) che ha subito violenza in Italia, a Rosarno ed era rimasta incinta. Anche lì la dinamica era che lei viveva da sola in una tendopoli con centinaia di persone, quasi tutti uomini perché tutti braccianti che lavoravano lì. Lei era scappata con altre quattro ragazze, ma ovviamente erano in netta minoranza e in questi contesti si sviluppa o la dinamica di avviamento alla prostituzione, o, quantomeno di violenza. Infatti è questo il motivo per cui è venuta qui da noi.
Quindi bisogna sottolineare anche quanto la tratta interferisca nelle vite delle donne che vivono per strada.
Sì certo, almeno per le straniere, sia a livello di reclutamento nel paese di origine con questo obiettivo specifico, sia all’arrivo stesso. Ma in generale le donne che vivono per strada, essendo in minoranza, si trovano veramente esposte a un pericolo, sia perché sono esposte al concreto rischio di violenza sessuale e sia perché proprio da lì parte spesso l’avviamento alla prostituzione. (…) Infatti le poche donne che stanno per strada o sono già completamente alienate e “perse” o, avendo subito violenza, sono state inserite in una dinamica positiva di recupero o in una dinamica peggiorativa di controllo sulla persona e ingresso nella prostituzione.
Ma laddove sussista un episodio di violenza, è previsto qualche percorso di tutela e rinserimento?
Se la donna ha la fortuna di incontrate le cooperative attive nel settore che possano reinserirla sì, ma questo non accade spesso. (…)
E partendo proprio da questo, quali credi che siano le modalità migliori da adottare per rispondere a queste specifiche esigenze?
Beh, sicuramente creare dei dormitori femminili è il primo passo, ad oggi sono solo misti. Poi sarebbe necessario uno specifico percorso di accoglienza in quanto senza fissa dimora: se sei vittima di violenza o di tratta c’è, se hai figli anche, però se sei sola non ricevi una specifica attenzione. Dunque ci vuole una facilitazione dell’ingresso per le donne nelle strutture pubbliche, ma non basta l’ingresso nei dormitori strutturati come lo sono oggi. (…) Occorre ripensare i dormitori, ridurre i numeri e creare nuclei meno numerosi in modo da facilitare la conoscenza reciproca e l’instaurazione di legami umani e poi ci vorrebbero dormitori femminili, in modo tale che si possa prima riacquistare una propria autonomia e sicurezza e poi inserirsi in una dinamica più larga.
E noi stiamo provando a fare qualcosa a riguardo?
Beh stiamo provando ad ottenere l’apertura di strutture comunali per l’accoglienza ai senza tetto, che dovrebbero essere affidate ad associazioni che si occupano di questa questione, sarebbe importante costruire percorsi di accoglienza e reinserimento specifici per donne, e, per tutti, dormitori dotati di sportello psicologico e medico. (…) Da parte nostra vorremmo concentrare i nostri sforzi in tal senso nel provare ad affrontare problemi specifici dei soggetti più esposti alla violenza, come le donne, quindi garantire uno sportello ginecologico nei centri, contatti con associazioni che si occupano di violenza, e campagne di informazione pratica (molte di queste donne oggettivamente non sanno come funziona il sistema medico qui e quali sono i loro diritti). Pensa per esempio al caso dell’aborto: la ragazza nigeriana di cui ti parlavo prima pensava che funzionasse come nel suo Paese che puoi provare ad abortire in qualsiasi momento e con qualsiasi mezzo e non sapeva che qui non è così, perciò è andata oltre il limite e non può più abortire... affrontare questa scoperta “fuori tempo massimo” per lei è stato molto duro…
Non si potrebbe fare una specie di vademecum fatto da noi che riporti una serie di informazioni utili per le donne senza fissa dimora, per esempio sulla pillola, sull’aborto…
Certo! Sarebbe un primo strumento di autodifesa per colmare questo vuoto di informazione (…). Si potrebbe fare informazione anche sugli sportelli a cui rivolgersi per i documenti ecc… Per esempio sarebbe buono essere informate del fatto che, che se hai avuto una specifica situazione di violenza, il procedimento di ottenimento dei documenti anche per le migranti è più veloce.
Quello che manca è il contatto costante con questa parte della popolazione, perché i servizi attivi sono pochi e depotenziati, non c’è copertura per queste dinamiche specifiche. (…) Ci vorrebbe un intervento specifico per queste donne che finiscono per strada per varie cause. Sicuramente l’immigrazione conta molto, le donne immigrate sono i casi più radicali, ma anche il fenomeno delle donne italiane che finiscono per strada è in aumento. (…)
Cosa proponiamo, cosa stiamo facendo e cosa abbiamo in programma di fare?
Oltre alla battaglia – comune per le donne e per gli uomini – che stiamo portando avanti per la residenza virtuale (per accedere quindi a diritti come, ad esempio, quello di avere un medico di base), stiamo organizzando delle unità di strada che distribuiranno pasti e indumenti (attività che già svolgiamo), ma che in più avranno “a bordo” mediatori, medici e psicologi che potranno garantire un primo aiuto ai senzatetto che incroceremo nei nostri giri e soprattutto potranno indirizzarli alle strutture adeguate (o anche presso i nostri ambulatori e sportelli se le cure necessarie sono alla nostra portata). Una battaglia tutta da imbastire è quella per i dormitori separati e per la presenza, all’interno delle strutture pubbliche, di personale medico di supporto. Assieme all’ambulatorio popolare abbiamo messo in piedi una rete solidale e sempre di più stiamo entrando in connessione con chi si occupa del problema della “tratta” e con centri antiviolenza (per monitorarne l’attività e connetterci a quelli “virtuosi”).
Migranti (scuola d’italiano, sportello legale e di indirizzo, controllo popolare nei CAS - centri di accoglienza straordinaria)
In questi tre ambiti si riscontra una questione di genere sia in termini quantitativi che qualitativi?
Per quanto riguarda la scuola d’italiano la composizione femminile è alta (40/50% su circa 115 iscritti da settembre ad oggi) si tratta principalmente di donne srilankesi lavoratrici (nel settore delle pulizie e in generale del lavoro domestico). Ci sono anche uomini, anch’essi impiegati nel settore domestico.
Ci sono poi anche i ragazzi e le ragazze provenienti da vari paesi africani che abbiamo conosciuto grazie al controllo popolare nei centri di accoglienza straordinaria; le donne sono state spesso generalmente vittime di tratta, quelle che vengono da noi sono di nazionalità nigeriana, ma anche c’è anche qualche ghanese e qualche gambiana (…).
Anche allo sportello legale ci siamo occupati di molti casi legati a specifiche difficoltà delle donne: emblematico è il caso di una giovane donna proveniente dallo Sri Lanka. N. era incinta, la sua casa aveva preso fuoco e nell’incendio aveva perso i documenti, successivamente, ricoverata in ospedale, è incappata nell’incapacità del primario e nel labirinto giuridico di chi non può dimostrare la propria identità. Se avesse lasciato l’ospedale, sarebbe scattato l’abbandono di minore e quindi la pratica di adozione, ma alla fine siamo riusciti a intervenire con esito positivo, registrando sua figlia all’anagrafe e rifacendole i documenti.
Qual è la situazione nei centri di accoglienza straordinaria nel territorio campano?
(…) C’è da dire che nel controllo CAS la questione femminile è cruciale: la presenza di donne nei CAS maschili è grave e illegale, quando ci troviamo di fronte a queste situazioni agiamo attraverso la presentazione di un esposto ed entriamo in contatto con i soggetti direttamente interessati per provare ad aiutarli dal punto di vista legale. In particolare in un centro di accoglienza di Licola, tanto per fare un esempio, erano presenti 4 donne su 70 uomini, e si prostituivano. Un altro caso grave è quello, che abbiamo riscontrato sempre nella stessa zona, di un centro nel quale c’erano, assieme agli uomini, delle donne con bambini. Il minore non accompagnato o accompagnato da madre prevedono percorsi e tutele specifiche, ma allo smistamento sono mandate dove capita per disorganizzazione e per fare numero, perché le presenze rappresentano un profitto per gli enti gestori.
(…) Ci sono – teoricamente e praticamente – tutele per donne con bambini?
Per donne che hanno subito violenze all’arrivo in Italia non c’è nulla. Per vittime di tratta c’è uno specifico servizio degli organi anti tratta. Nei centri di accoglienza dovrebbe esserci uno sportello di supporto psicologico per tutti, ma nelle decine di controlli che abbiamo fatto non ne abbiamo riscontrato la presenza quasi mai (così come spesso non ci sono mediatori culturali, personale medico o supporto legale).
C’è un’attenzione alle specificità ginecologiche?
No, è già difficile avere attenzione sanitaria in generale, come dimostra il drammatico caso di Sandrine a Cona.
A partire dall’esperienza concreta, con rispetto alla specificità di genere, cosa andrebbe fatto oltre noi? E cosa possiamo fare noi a partire dalle nostre forze?
(…) Quando controlliamo i CAS e riscontriamo la presenza di donne (con o senza bambini) facciamo l’esposto alla prefettura che è poi tenuta ad avviare il trasferimento, noi consigliamo dove trasferirli, preferibilmente presso associazioni corrette e affidabili.
Il fatto che ci siano sono donne nei CAS misti chi danneggia?
Le donne sicuramente, ma il disagio psicologico riguarda tutti a causa del sovraffollamento e dell’impossibilità oggettiva di instaurare relazioni umane.
E tra gli operatori nei servizi di accoglienza c’è un’attenzione peculiare verso le donne? È garantito un numero minimo di operatrici donne?
Nella nostra esperienza abbiamo riscontrato che nella stragrande maggioranza dei casi gli operatori non sono affidabili, e assolutamente non è garantito un numero di operatrici donne, anzi in maggioranza sono uomini, così le dinamiche donne/uomini interne si inaspriscono. (…)
Cosa proponiamo, cosa stiamo facendo e cosa abbiamo in programma di fare?
In generale proponiamo un sistema di accoglienza dal basso: è l’ente locale che deve provvedere alla gestione e non dare in appalto ai privati che per il profitto non sono interessati a offrire i servizi di base immaginiamoci quelli in più. Riguardo alla specifica questione di genere prima di tutto cerchiamo di intervenire alle mille carenze del sistema (inaccettabile) dell’accoglienza, facciamo rete con altri gruppi e associazioni per garantire servizi di mediazione, sanitari e legali minimi riguardo ai ricongiungimenti familiari, alla denuncia delle violenze e della tratta, agli eventuali problemi psicologici o riguardanti la gravidanza. Aggiungerei che anche la nostra scuola d’italiano è pensata in un’ottica di genere: in molte scuole le donne non vanno perché i maestri sono uomini e pure gli alunni, all’ex-opg la maggior parte delle insegnanti sono donne e questo facilita la loro partecipazione ai corsi.
Per avere un quadro complessivo della nostra attività nel “settore migranti” vi rimandiamo al nostro sito e al doc dal titolo: “Controllo popolare nei CAS e attività nel “settore migranti”. La nostra esperienza e qualche riflessione”.
Lavoro (Camera Popolare del Lavoro, sportello legale)
Nell’ambito dell’esperienza concreta dello sportello legale, così come in quello più ampio delle lotte portate avanti dalla Camera Popolare del Lavoro, è stata riscontrata una peculiare situazione delle donne?
In particolare, riguardo allo sportello ci sono da sottolineare alcune cose. Finora si sono rivolte a noi lavoratrici di cura (baby sitter), numerose cameriere nella ristorazione, una maestra di asilo nido, una operaia, una ricercatrice universitaria; quasi tutti i loro problemi derivavano dalla mancanza di contratto (lavoro nero puro) o dal mancato rispetto del contratto (lavoro grigio). Tutte (…) erano più o meno consapevoli della loro situazione di sfruttamento, tendenzialmente agguerrite e decise ad arrivare fino in fondo, se non alla causa, per lo meno al recupero di parte del loro credito di lavoro (si sono registrate solo un paio di eccezioni). Il loro grado di coinvolgimento nel percorso individuale di “rivendicazione” è stato quasi sempre alto e alcune di loro hanno dimostrato di aver compreso il senso politico dello sportello, partecipando, per esempio, alle interviste di presa diretta o scrivendo un post. (…) Di “tipicamente femminile” forse possiamo sottolineare la ricorrenza di lavori di cura e di insegnamento: baby sitter, insegnanti di scuola privata, di asili nido; e nell’ambito della ristorazione, si può notare una diversificazione delle mansioni: le donne fanno solo le cameriere, gli uomini anche i cuochi e i fattorini. Di “tipicamente femminili” sono inoltre le situazioni in cui ci si trova a subire molestie e gesti violenti da parte del datore di lavoro: ci hanno parlato di battutine e ammiccamenti, di strattonamenti in seguito a una banale lite. (…)
(…) Cosa facciamo noi come CPDL e sportello legale per risolvere le questioni e i problemi più comuni tra le donne lavoratrici?
Già dall’anno scorso c’è in cantiere l’idea di organizzare un appuntamento di autoformazione specifico sui diritti delle lavoratrici. Ovviamente una cosa del genere può avere la sua utilità anche come singolo evento, ma sarebbe più sensato, e proficuo politicamente, inquadrarlo in un percorso generale. In ogni caso, la lotta per l’emersione dal nero e dal grigio è già un passo importante per migliorare le condizioni delle lavoratrici; infatti, le donne sono senza dubbio quelle che ne subiscono le maggiori conseguenze: pensiamo ai diritti e alle garanzie relative alla maternità, per es. In tal senso la campagna contro il lavoro nero, che stiamo costruendo come focus dell’anno della camera popolare del lavoro, va declinata anche “per genere”, con tutto quello che implica: studio delle statistiche, costruzione di una piccola statistica nostra, confronti con altri territori, individuazione di situazioni concrete ed esemplificative, maggiore coinvolgimento delle lavoratrici in momenti pubblici e assembleari.
Quali sarebbero invece le cose da fare andando anche oltre le nostre immediate possibilità?
Da un lato più asili nido pubblici (e obbligatori, aggiungo io: estendiamo verso il basso la scuola dell’obbligo!); dall’altro una campagna contro il nuovo mito della maternità (…)
Salute (ambulatorio popolare, sportello pediatrico ginecologico e sportello d’ascolto)
Avete riscontrato una problematica di genere all’interno dell’attività dell’ambulatorio?
L’Ambulatorio Popolare da settembre ad oggi (gennaio) ha registrato la seguente composizione di utenti:
60 % donne, 40 % maschi: un totale di 143 utenti di cui 85 femmine e 59 maschi.
Sul totale femminile, 18 chiedevano accompagnamento ai servizi ginecologici, nello specifico le utenti presentavano infezioni o necessità di effettuare il test di gravidanza. Questi dati denotano la difficoltà di accesso ai consultori e alla ginecologia pubblica. (…) I casi di gravidanza sono stati 3, tutte riguardanti donne straniere, di cui 2 senza tessera sanitaria, ma con codice STP.
Per quanto riguarda le ultime giornate di prevenzione, gli accessi sono stati 104, di cui quasi il 100% erano donne. Gli esami effettuati sono stati ecografia della mammella e tiroide. La gran parte lamentava l’impossibilità di accedere ai consultori: in particolare non venivano contattate o respinte da questi stessi. Veniva negato loro il pap test (indagine per il carcinoma della cervice uterina) e la mammografia, pur appartenendo, per età, alle popolazioni aventi diritto agli screening.
In termini quantitativi, come possiamo spiegare la maggiore affluenza femminile? Per i servizi proposti?
(…) Tra i motivi principali che le hanno portate a rivolgersi al nostro ambulatorio sicuramente rientrano il costo dei ticket (per i servizi offerti gratuitamente di consultori il discorso è a parte e i motivi sono altri, tendenzialmente la difficoltà di accesso e la non conoscenza della presenza di questi stessi servizi), le lunghe liste d’attesa. Inoltre, spesso, c’è un problema di tempo più rilevante per le donne che per gli uomini: ce siano lavoratrici o no, su tutte le donne ricadono i compiti rientranti nelle definizioni di lavoro domestico e di cura, motivo per cui il tempo “libero” a disposizione è davvero ridotto e non consente di aspettare a lungo per una visita medica.
Quasi tutte le donne che vengono da noi non hanno nemmeno accesso al servizio gratuito del consultorio e non rientrano negli screening non solo perché talvolta respinte a monte, ma anche perché, a causa delle liste d'attesa eccessivamente lunghe, non sono messe materialmente in condizioni di rispettare gli intervalli periodici di controllo, rimanendone automaticamente tagliate fuori.
È emerso un problema di approccio? Una dimensione più informale e intima?
Alcune donne hanno rifiutato di sottoporsi all’ecografia della mammella per imbarazzo. Un’altra cosa è che all’interno della giornata di prevenzione al di fuori delle ecografie c’erano dei momenti dedicati a corsi di autopalpazione e la grande partecipazione, oltre che le testimonianze raccolte a margine, denotavano che le utenti non avevano mai avuto accesso a nulla del genere nei loro precedenti contatti con gli specialisti dei servizi sanitari pubblici.
Al di la delle testimonianze delle singole, che hanno una visione parziale, i medici complessivamente riscontrano che c’è un deficit di informazione iniziale: esistono i consultori dove le donne hanno diritto ad una serie di esami, ma non ne sono al corrente. Esiste un’assoluta disinformazione sulla prevenzione primaria (misure preventive da applicare prima che si sviluppi malattia) e anche su quella secondaria (a malattia già sviluppata ma asintomatica). Rispetto all’età, o sono giovanissime (fascia di età 20/35 e che ci conosce tramite facebook) oppure hanno fino ai 55.
Con la componente immigrata di solito una chiacchierata generica sulla salute precede l’indirizzamento alla visita ginecologica. Riguardo alla componente italiana, invece, si tratta maggiormente di studentesse le cui richieste sono mirate alla visita ginecologica.
Cosa proponiamo, cosa stiamo facendo e cosa abbiamo in programma di fare?
Sul piano politico generale sicuramente continueremo a batterci – come abbiamo fatto per diversi presidi ospedalieri nel salernitano e nel napoletano – contro la chiusura degli ospedali o la riduzione dei reparti (emblematica in questo senso è la chiusura dei reparti di ginecologia e neonatologia dell’ospedale di Cava de’ Tirreni -SA-) e in generale contro i tagli alla sanità.
Continuiamo la nostra battaglia sulla nutrizione (soprattutto per quanto riguarda i bambini, lo sportello pediatrico è strettamente collegato con questo percorso) e sulla prevenzione, con cadenza mensile organizziamo giornate in cui puoi venire presso l’ex-opg ed effettuare pap test, ecografie. Queste giornate che hanno avuto grande successo e partecipazione sono anche l’occasione per distribuire materiali informativi (ad esempio il nostro opuscolo “A salute è 'a primma cosa. Obiettivo prevenzione garantita, giusta e gratuita”) fare corsi di autopalpazione.
Grazie ai soldi raccolti a gennaio attraverso una campagna di crowdfunding, a marzo inaugureremo uno studio ginecologico vero e proprio con tanto di ecografo; sempre a marzo inizieremo un giro per le scuole medie superiori di Napoli (contiamo di coprirne almeno una trentina) dove distribuiremo i nostri opuscoli su: 1) prevenzione e screening 2) contraccezione 3) malattie sessualmente trasmissibili (sono tutti scaricabili dal nostro sito). Coglieremo anche l’occasione per parlare, con l’aiuto di alcune terapeute, di educazione ad una sessualità consapevole e distribuiremo preservativi (che non fanno mai male!).
Ad aprile inizieremo la distribuzione itinerante di questi materiali col “Poderoso” (il nostro furgoncino che ci è servito a fare volantinaggi e propaganda per il No al referendum costituzionale in tutta la città) e partirà un corso preparto (ovviamente gratuito, come tutte le attività che si fanno da noi all’ex-opg).
Grazie all’interazione continua con il gruppo che si occupa del settore migranti continueremo ad cercare di garantire l'accesso ai servizi sanitari attraverso percorsi di informazione e di accompagnamento per l'ottenimento di codici STP, ENI e tessere sanitarie, con una particolare attenzione a coloro le quali, non avendo permesso di soggiorno, hanno accesso a servizi assolutamente minimi e insufficienti, spesso limitati ai soli ambulatori STP, ai consultori familiari (quando non vengono rifiutate), ai Pronto Soccorso e alle guardie mediche.
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