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Femminicidio e disinformazione

Sul “femminicidio”, complice la sedicente sinistra radical-chic, si è costruita l’ennesima operazione di “disinformazione di massa”. Per capire la natura reale del fenomeno, infatti, non bastano certo il conto aggiornato degli ammazzamenti e la storia in salsa romantica delle povere donne uccise. Questi sono dati superficiali cui manca essenziali complementi. Bisognerebbe, infatti, aggiungere almeno, per cominciare, che l’80 % degli assassini è di “razza italiana”. Si darebbero così senso e valore concreti al salviniano “primi gli italiani”. Primi, certo, e quindi – come vuole la logica corrente – inferiori ai “barbari” immigrati, che – per fortuna, ci sarrebbe da dire – non si integrano nella civilissima società ospitante.

 

Manca, poi, e non è vuoto banale, la radice di questo primato: siamo primi, perché siamo culturalmente fermi al concetto dell’onore, a un diritto di famiglia che sebbene modificato nei codici, se non si è saputo modificare nella testa di cittadini, per i quali spesso lo stupro è figlio di una gonna corta e di “comportamenti” riassunti nelle parole del senso comune: “in fondo se l’è andato a cercare”.

Il senso comune però non è buon senso e nell’analisi del fenomeno manca la presa d’atto: il femminicidio chiama direttamente in causa le politiche dei tagli alla formazione. Manca – e di tanti vuoti questo è il più grave e significativo - il dato sul “femminicidio al nero”, che uccide ugualmente, ma non ha mai colpevoli ed è sempre un delitto perfetto. Il più diffuso e ignorato, il più tollerato e taciuto.

Manca insomma all’appello la “morte morale” di una donna come Maria Baratto, morta di cassa integrazione e di reparto confino. Manca la morte da contratto di assunzione con incorporato il licenziamento per gravidanza; mancano la discriminazione salariale, le montagne da scalare nella carriera, le molestie sessuali che decidono dell’assunzione o del mantenimento del posto di lavoro.

Se si vorrà sventare la strumentale la manovra, in un Paese malmesso per libertà di stampa, e smascherare la pietà pelosa del conto delle vittime e la retorica della femmina vittima di violenza maschile, occorrerà che la nostra anemica comunicazione sui social cambi registro e si ricordi che il modello politico del capitale finanziario è il fascismo. Lo ha dimostrato lucidamente Pietro Grifone e bisogna perciò mettere in discussione la presunta superiorità del modello occidentale e aver presente che, come accade per tutti i deboli e gli sfruttati, la condizione della donna è figlia allo stesso tempo della società capitalista, della sua sottocultura, dei tagli di bilancio al sistema formativo e dei limiti di una sinistra evanescente, che ha rinnegato la lotta di classe e si è attestata sulla sterile difesa dei diritti umani e civili.

Come dimostra chiaramente una delle più incontestabili “costanti” della vicenda umana, laddove si sono cancellati la cultura del lavoro e i diritti dei lavoratori, conquistati dal movimento operaio e socialista, anche i diritti umani e civili sono stati sistematicamente violati. Il “femminicidio” è la parte di un tutto, l’effetto di una causa, il fango che precipita a valle dall’immensa montagna dell’ingiustizia sociale. Da questa consapevolezza può e molto probabilmente deve ripartire una sinistra degna della sua storia e della sua funzione sociale e politica. Poi si vedrà se la destra è un suo sinonimo e tra gli strumenti e le categorie ormai “fuori tempo” ci sono davvero la cultura di classe e la centralità del conflitto.

 

 

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