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Femminicidio, chiudono i centri antiviolenza

Nelle ultime settimane si è parlato spesso di femminicidio. Alcune donne infatti sono state uccise, nell’arco di pochi giorni. 60 sono state le donne assassinate dall’inizio del 2016.

Ci si dovrebbe aspettare che in Italia vi sia un sistema di strutture che contrastino tale fenomeno, adeguato alle necessità. Ed invece molti centri antiviolenza si trovano in notevole difficoltà ed alcuni sono stati costretti a chiudere.

Di tale situazione si occupa Lidia Baratta, in un articolo pubblicato su Linkiesta. 

I primi centri antiviolenza (Cav) in Italia risalgono alla fine degli anni Ottanta. Oggi, in base alla mappatura – non completa – del dipartimento per le pari opportunità, che gestisce il numero per le richieste di aiuto 1522, tra Cav, sportelli e case rifugio si arriva intorno a 450 strutture.

Ma i centri antiviolenza di tutta Italia annaspano, ancora in attesa dei finanziamenti statali del 2013-2014. Sempre sul filo del rasoio, allo stremo per mancanza di fondi, sostenuti per lo più dai volontari, ad alcuni non resta che chiudere.

A Roma, a poche ore dal femminicidio di Sara Di Pietrantonio, a lanciare l’allarme è stato il “centro comunale antiviolenza Donatella Colasanti e Rosaria Lopez”, attivo dal 1997 a sostegno delle donne vittime di violenza e maltrattamenti.

In questo centro sono passate quasi 9.000 donne, di cui trecento hanno trovato ospitalità insieme ai figli. Ma il centro rischia la chiusura.

Lo scorso 13 maggio è arrivato l’avviso di sgombero dei locali utilizzati.

“Sulla base delle informazioni ricevute”, ha affermato Oria Gargano, presidente della cooperativa BeFree, che gestisce il servizio, “abbiamo appreso che l’intero edificio non è di competenza comunale, ma di proprietà della Regione Lazio”. Che ora reclama somme molto consistenti per i vent’anni di occupazione dei locali. Somme che il Comune non può sostenere.

E l’unica soluzione prospettata è stata quella della chiusura della struttura.

Il caso romano, però, non è isolato. C’è chi, come Maria Luisa Toto, presidente del centro antiviolenza “Renata Fonte” di Lecce, qualche anno fa è stata costretta addirittura a fare lo sciopero della fame per non dover chiudere. Il centro “Roberta Lanzino” di Cosenza, attivo dal 1988, nel 2010 si è visto costretto a chiudere la casa rifugio, quando il sostegno economico della Provincia è venuto meno.

La legge 119 del 2013 sul femminicidio aveva previsto l’erogazione di10 milioni all’anno per i centri antiviolenza. Ma la prima tranche del 2013-2014 è stata trasferita alle Regioni solo nell’autunno del 2014.

E di questi soldi, una volta arrivati nelle casse regionali, nella maggior parte dei casi si è persa traccia.

In Lombardia, ad esempio, ai centri antiviolenza e alle case rifugio non è stato distribuito ancora un euro. In Calabria a fine 2015 è arrivata solo la prima tranche. Nel frattempo, i centri antiviolenza sono costretti a vedersela con le disfunzioni degli enti locali.

Se a Roma il centro antiviolenza si trova al centro di un contenzioso tra Comune e Regione, a Milano è stata l’Amministrazione Provinciale a sottrarre un immobile al Cadmi per la necessità di vendere i propri, fare cassa ed estinguere i debiti.

Molto dipende anche dalle Regioni. Diverse Regioni si sono dotate di leggi per contrastare la violenza di genere.

Ma anche in questo caso i fondi messi a disposizione sono pochi e non sempre vengono effettivamente distribuiti.

E poi il tanto pubblicizzato piano nazionale contro la violenza sulle donne è ancora fermo.

Approvato dal consiglio dei ministri, l’8 marzo in Gazzetta ufficiale è stato pubblicato un avviso pubblico della presidenza del Consiglio che prevede lo stanziamento di 12 milioni di euro per i progetti di sostegno alle donne vittime di violenza.

Ma nessuno degli addetti ai lavori ha saputo più nulla.

D’altronde, fino al 10 maggio, giorno di consegna della delega alle Pari opportunità alla ministra Maria Elena Boschi, il governo non aveva neppure un rappresentante che si occupasse delle questioni di genere. Mi sembra indispensabile, quindi, che ai centri antiviolenza siano garantiti adeguati finanziamenti, costantemente.

Certo, dovranno essere effettuati, contemporaneamente, i necessari controlli, affinchè i fondi pubblici siano ben utilizzati e per i fini previsti.

Non si può escludere che in passato una parte delle risorse finanziarie pubbliche erogate ai centri antiviolenza non siano state usate come dovevano.

Però, i centri antiviolenza che funzionano, e sono molti, devono essere messi in condizione di perseguire, sempre e senza le notevoli difficoltà verificatesi fino ad ora, gli importanti obiettivi che si prefiggono.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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