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Egitto, lo sguardo oltre la gabbia

Gli occhi che si cercano, le mani mosse in lontananza non sono un gioco. Comunicano spesso disperazione, tristezza e angoscia per essere lì, segregati, ingiustamente accusati, dopo mesi di detenzione e in tanti casi di tortura. 

E’ un video, girato in un’aula egiziana di tribunale e pubblicato sul sito della Bbc in lingua araba, documenti che probabilmente non vedremo più perché in quei luoghi, dove già da tempo pur in presenza di pubblico che poi altro non sono che familiari dei detenuti, la stampa non è ammessa. Allora ci si mettono i più giovani, masticatori di tecnologia a filmare con ogni mezzo e divulgare sui social media.

La breve registrazione è finita su Facebook, ma non si sa quanto potrà restarci. Intanto fa proseliti, e divulga il clima che gli odierni cittadini d’Egitto conoscono. Immaginiamo una figlia che allunga la mano e gesticola, scrivendo sulla trasparente lavagna dell’aria forse lettere, per indicare una parola, o numeri. Sicuramente proietta idealmente l’arto verso l’uomo rinchiuso in gabbia che gli risponde. Non mancano i sorrisi in questa comunicazione tipica dello scambio fra detenuti e parenti. Non è bene bagnare con le lacrime, che magari dentro l’orbita premono, però è giusto non mostrale in un momento che è festa della vista. Ti vedo, dunque sei vivo, non ti hanno ucciso, non hanno piegato il tuo corpo né il sentimento.

Per lo più sono ragazze e giovani donne a tenere alto lo spirito sul lato opposto, fra i rinchiusi della gabbia. Siedono accanto a soldatini dalla vista sperduta, costretti in questo caso non a un ruolo sanguinario e assassino ma al meno ingrato compito di vigilare sul pubblico. Ciò che non riescono a trasferire espressioni profondissime e occhi appassionati, lo dice la morbida gestualità di dita piegate a cuore, come fanno le fidanzatine innamorate. E l’altra metà, se è un giovane ragazzo, stravede, e sorride, sorride finché può farlo se le membra non dolgono dai troppi colpi ricevuti in celle da duemetriecinquanta per due, dove ci si sta dentro in cinque.

Dove si dorme a turno, distendendosi su un pavimento bagnato e indossando gli stessi panni ormai puzzolenti da mesi. E’ una visione forzata ma rappresenta un’epifanìa, una sequela di gesti dentro quelle gabbie a rete fitta che lasciano a malapena passare la luce, così che i corpi, alcuni emaciati dai digiuni, muovano anch’essi mani e braccia, tanto per rispondere o dire: sono vivo, ancora lo sono. E almeno salutare prima che, perentoria, una voce annunci con un grido l’entrata della Corte. Quella che può decidere la pena di morte. Oppure la sepoltura in “Scorpion” già esistenti e da costruire.

Video: http://www.bbc.com/arabic/media-46526067

Enrico Campofreda

 

 

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