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Economia di condivisione VS economia di morte: il bene comune contro il bene del singolo

Scrivendo un precedente articolo sul concetto di “economia di morte” e sulle sue implicazioni, mi ero ispirato ad un originale contributo di Sergio Altieri, uno scrittore ‘noir’, per riportare il discorso all’attualità del disastro finanziario che sta travolgendo stati e mercati.

Quella che allora avevo chiamato thanato-oikonomìa, conferendo una tragicità greca all’espressione inglese death-economy, mi sembrava infatti la concettualizzazione di una realtà sotto gli occhi di tutti. Una realtà in cui l’economia è diventata “un algoritmo ineluttabile verso il baratro”, caratterizzata com’è da una guerra infinita che si autoalimenta e, parallelamente, dalla crisi mortale degli stati, trascinati nella spirale stagnazione-inflazione-recessione-depressione-collasso.

Il trionfo del “profitto a ogni costo, con ogni mezzo, contro ogni ostacolo” – per citare ancora Altieri – è del resto strettamente connesso all’escalation guerrafondaia che manipola l’opinione pubblica con una sorta di guerra psicologica, per meglio dimostrare l’ineluttabilità di quella guerreggiata. In questo senso, l’economia in sé, almeno come viene comunemente rappresentata, è diventata sinonimo di death-economy. E questo perché da troppo tempo non è più un mezzo per assicurare vita, sicurezza e benessere (nel senso più ampio, sintetizzato dal temine ebraico shalom), bensì un pernicioso strumento di morte e di distruzione.

Ci ripensavo leggendo l’appello “Furto d’informazione”, pubblicato da il manifesto del 24.7.2012, i cui sottoscrittori denunciano la “sistematica deformazione della realtà e una intollerabile sottrazione d’informazioni a danno dell’opinione pubblica”, riferendosi alla diffusa rappresentazione degli sbocchi alla crisi economica attuale come “comportamenti obbligati (‘non-scelte’)”. I firmatari dell’appello, fra l’altro, sottolineano che una controversa dottrina economica come il neoliberalismo, ritenuta da molti quanto meno corresponsabile della crisi, viene invece assunta “come autoevidente, sottraendo a milioni di cittadini la nozione della sua opinabilità e impedendo la formazione di un consenso informato, presupposto della sovranità democratica”. Questo martellante ”pensiero unico” – che orwellianamente viene diffuso dai media come la dottrina – è di fatto alla base della visione d’economia che ci viene propinata come se fosse vangelo, costringendo chi dissente a recitare il ruolo di pericoloso eretico e sovversivo.

Eppure, come illustra un interessante articolo a pag. 6 dello stesso numero del quotidiano, basterebbe tornare alle radici greche del termine “economia” per scoprire che quella di cui oggi si parla e straparla è altra cosa. Edoardo Vanni – nella sua nota titolata “In senso della misura. Le lezioni di economia di quei soloni dei greci”- ci aiuta a restituire senso e sostanza a quest’abusata parola, riportandoci semanticamente alla sua origine ed alla sua antinomia con un altro termine greco, molto più vicino alla nostra accezione attuale di “economia”. La distinzione che facevano gli antichi Greci, ci ricorda, era fondamentalmente tra “oikonomìa” (attinente, come dice il nome, alla gestione della casa, della famiglia, della comunità, e comunque legata al valore d’uso) e “krémata”, un concetto connesso invece al mondo delle cose materiali e quindi al valore di scambio, configurabile quindi come “arte di accumulare ricchezza”.

Ebbene, la polis greca riuscì allora a realizzare un obiettivo che oggi sembra irreale: dare un metron, cioè una misura, un limite, all’arricchimento smisurato ed al profitto incontrollato, in nome del primato della politica e dell’interesse collettivo sulla “crematistica” e sostenendo la superiorità del valore d’uso su quello di scambio. In questo senso, conclude Vanni, i Greci possono ancora darci lezioni ed insegnarci che non può esistere una vera “oikonomìa” senza garanzia del bene comune e, soprattutto, senza il primato della politica.

Fatta questa premessa, parlare di Death-Economy, cioè di economia di morte, appare con evidenza un controsenso semantico, un vero e proprio ossimoro. La stessa tradizionale contrapposizione fra ecologia ed economia andrebbe forse rivista, se al secondo termine restituiamo il senso originario di gestione dei beni comuni della collettività, regolato da quel metron che porta in sé il concetto ecologico ed etico di ‘limite’, sia soggettivo sia oggettivo, all’accumulo di ricchezza.

Le leggi (nomìa) che regolano la produzione e la distribuzione della ricchezza in qualunque collettività (oikos) dovrebbero avere origine, infatti, proprio da quel senso della misura che impone limiti precisi all’arricchimento sfrenato di alcuni a danno di altri e dell’intera comunità. Non si tratta di una visione utopica ed ideale, ma piuttosto di un’impostazione alternativa che ha radici “antiche come le montagne”, per citare una nota espressione di Gandhi, non a caso teorizzatore del sarvodaya (trad.: “bene di tutti”, lo “sviluppo comune”) inteso proprio come “economia di condivisione”.

“Lo spirito di condivisione porterà alla pace, alla soddisfazione e alla fratellanza, mentre l’attuale economia porta alla violenza, che alla fine ci conduce diritti alle bombe atomiche – scriveva già nel lontano 1945 Joseph C. Kumarappa, definito “l’economista di Gandhi”. [...] In un’economia sarvodaya sottolineeremo i valori umani anche in riferimento ai prezzi e ai costi, piuttosto di usare questi ultimi come guida per la produzione materiale. [...] Caratteristico dell’economia capitalista è l’orgoglio del possedere, mentre l’unicità del sarvodaya risiede nel raddoppiare la gioia grazie alla condivisione delle cose con gli altri e nel dimezzare le ragioni di dolore grazie all’empatia del nostro prossimo . [...] Sarvodaya, con la condivisione della vita, è l’unica soluzione all’egoismo materiale che può portare alla distruzione della civiltà…” (J. P. Kumarappa, Economia di condivisione, Pisa: Centro Gandhi, 2011, P.37).

L’alternativa tra economia di condivisione e di vita ed economia di morte, dunque, era già ben chiara quasi 70 anni fa. Si tratta di una contrapposizione che affonda nella polis dei Greci ed arriva fino agli economisti alternativi come Barry Commoner, secondo il quale “Possiamo ricavare una lezione fondamentale dalla natura: niente può sopravvivere sul pianeta se non diventa parte cooperativa di un tutto più vasto e globale” (B. Commoner, Il cerchio da chiudere, Milano: garzanti, 1987, p.60).

Chiudere il cerchio dell’economia ecologica e nonviolenta, insomma, vuol dire rivedere la nostra stessa idea di economia, giungendo a quella “Eco-economy” di cui ha parlato Lester R. Brown nel suo omonimo libro del 2001. Già dieci anni fa, infatti, egli denunciava che l’attuale economia “sta distruggendo i sistemi che la sostengono e dilapidando le risorse che costituiscono il suo capitale naturale. Le domande dell’espansione economica, così come sono strutturate oggi, stanno superando le capacità produttive degli ecosistemi…” (L. R. Brown, Eco economy – Una nuova economia per la Terra, Milano: Editori Riuniti, 2003, p.30). Costruire una nuova economia di vita e sconfiggere quella di morte, allora, è la sfida fondamentale per chi vive la tragedia attuale di una folle ricchezza che produce povertà e di uno sviluppo che genera sottosviluppo. E’ un imperativo categorico per chi non si rassegna ad accettare supinamente che i beni comuni siano accaparrati da pochi e che questi ultimi possano scatenare guerre per difendere i loro assurdi privilegi, dando così un’immagine chiara, sebbene fosca, di ciò che s’intende per “economia di morte”. Eppure il problema è molto più antico e altrettanto antica ne è la consapevolezza e la sfida all’ineluttabilità di una visione “krematista” più che propriamente “eco-nomica” del mondo.

“Fin dove volete arrivare, ricchi, con le vostre insane brame? Volete forse essere i soli ad abitare la Terra? Perché cacciate colui con cui avete in comune la natura e pretendete di possedere per voi la natura? La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? La natura che tutti partorisce poveri, non conosce ricchi. [...] La natura dunque ignora le distinzioni quando nasciamo, le ignora quando moriamo. Ci crea tutti uguali….” (Ambrogio, Naboth, 12,53 , Milano-Roma 1985, pp.131-33).

Le parole di uno dei più grandi “dottori della Chiesa” – scritte intorno al 390 d.C.- e quindi 1600 anni fa, ispirandosi a sua volta alla triste storia di Naboth, raccontata nel I Libro dei Re – ci riportano ad una saggezza antica che l’umanità ha smarrito, ma che deve assolutamente recuperare. Prima che sia troppo tardi e che la logica della distruzione e della morte prevalgano su quella della costruzione comune e della vita.

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