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È meglio lo Stato islamico o Assad? (Parte prima)

La domanda che spesso viene posta a chi continua a denunciare i crimini di Assad è: “È meglio lo Stato islamico o Asad?”. È una domanda retorica di facile soluzione. Questo pezzo (il primo di tre) vuole dare risposta alle questioni poste anche da chi sostiene Assad. Non sono presentate solo opinioni, ma fatti documentati accaduti negli ultimi quattro anni. Vuole essere un ampio dizionario di testimonianze video delle atrocità siriane.

 

(di Alberto Savioli)

Leggete pure a puntate questo lungo pezzo: prendetevi il vostro tempo. Ma guardate i video. Alla fine vi sarà impossibile riproporre la domanda: “Meglio lo Stato islamico o Assad?”.

Dallo scoppio della primavera araba in Siria e dalle prime manifestazioni di protesta ne è passata di acqua sotto i ponti. Ora l’attualità parla solo di Stato islamico e su tutto il resto è stato steso un velo di silenzio.

Il geo-politologo esperto di tutti i conflitti che è possibile incontrare alle conferenze o sui blog in Internet, quando non è travestito da giornalista fazioso, è infastidito e considera inutile parlare adesso delle proteste di piazza del 2011, degli attivisti arrestati e delle torture. Ripete una sola domanda retorica: “Ma è meglio lo Stato islamico (Is) o Asad?”.

Solo un folle potrebbe rispondere: “È meglio lo Stato islamico”.

Ma la visione manichea buono-cattivo, brutto-bello, noi-loro, la lascio a chi della cattiva conoscenza fa la sua arma, a chi attraverso la semplificazione o il qualunquismo e con la teoria sempre pronta del complotto globale, risolve problemi e situazioni difficili da capire, che necessitano di approfondimento e comprensione, tutte cose faticose.

Le proteste pacifiche del 2011: verità o menzogna?

Torniamo per un attimo a quelle proteste di piazza del 2011 e 2012.

Quelle proteste per qualcuno non ci sono mai state, “un complotto esterno”, “esagerate dalle tv pan-arabe come Al Jazeera”, “tra loro vi erano infiltrati armati”, oppure secondo altri “nessuno avrebbe sparato sulla folla, ma anzi qualche facinoroso ha cominciato a colpire l’Esercito siriano”.

Ho affermato di non essere manicheo, quindi è possibile dire che degli infiltrati possano esserci stati. Che anche l’Esercito possa essere stato colpito, che le tv pan-arabe abbiano esagerato a volte i numeri dei manifestanti, senza nulla togliere al gran movimento di protesta pacifico che forse nessuna rivoluzione ha mai visto. Un movimento della società civile talmente grande da rendere incredibile il silenzio di chi non l’ha sostenuto e la malafede o l’ignoranza di chi lo nega.

Di quelle proteste non metterò video: il geo-politologo da salotto è prontoa dirmi “li hai scelti ad hoc”. Voglio inondare voi e quel geo-politologo di ciò che secondo qualcuno, non è mai stato. Alcuni video sono molto forti, capisco se qualcuno non se la sentirà di guardarli, ma il geo-politologo da salotto o il supporter di Asad li devono guardare tutti dal primo all’ultimo minuto, altrimenti non accetterò di rispondere alla loro domanda retorica: “Meglio lo Stato islamico o Asad?”.

Tra il marzo 2011 e il corso del 2012, quando non esisteva ancora il Califfato, l’Isis, i salafiti o il grande numero di jihadisti stranieri che stanno convincendo il mondo a riabilitare il presidente siriano Bashar al Asad, la gente manifestava chiedendo riforme, maggiore libertà, e poi, dopo la reazione violenta del regime, la caduta di Asad (video 123).

Si riversarono nelle strade fiumi di persone a Hama. In questa città nel luglio 2011 la gente manifestava con la bandiera nazionale siriana prima dell’adozione della bandiera della rivoluzione dal colore verde-bianco-nero (video 12). A Homs nell’aprile 2011 nel quartiere di Khaldiya (agosto 2011) dicevano: “Chiediamo l’intervento della comunità internazionale per proteggere il popolo siriano dal genocidio”.

Quasi tutte le città siriane ebbero le loro manifestazioni di piazza, a Daraya (Damasco) nel dicembre 2012, un corteo di studentesse gridava in coro: “Hafez al Asad è il cane delle nazioni arabe”, a Homs un’altra manifestazione femminile protestava pacificamente.

Anche i curdi di Kobane, divenuti ora il baluardo contro lo Stato islamico e gli eroi di anti-imperialisti e sostenitori del regime, nel febbraio 2012 manifestavano contro Asad e nessuno li ascoltava (video 12). In queste manifestazioni sventolava anche anche la bandiera dei cristiani assiri (video al min. 0.18), per cui molti ora si preoccupano chiedendo: “Se cadesse Asad cosa sarebbe delle minoranze?”. A Qamishli, nel febbraio 2012, sventolavano assieme la bandiera della rivoluzione, quella dei curdi siriani e la bandiera dei cristiani assiri.

Per i curdi allora, uniti agli arabi nella protesta contro Asad, nessuno manifestava e nessun geo-politologo da salotto chiedeva interventi della coalizione. Lo Stato islamico non esisteva ancora!

 Le prime manifestazioni: complotto globale o dura repressione?

In quella fase storica della rivoluzione il geo-politologo era silente, anche di fronte alle uccisioni quotidiane e agli spari sulla folla disarmata da parte delle milizie e degli shabbiha del presidente. A Homs (video al min. 4.30, aprile 2012), una folla seduta a terra fu oggetto di colpi da arma da fuoco da parte delle milizie governative.

Questi fatti erano la prassi in molte città (1234): ad al Sanamin nel marzo 2011, a Daraa nell’aprile 2011 – un uomo a terra ferito si chiede “Perché?… era pacifica (la manifestazione), pacifica”ad Abu Kamal nel maggio 2011, a Hama nel giugno 2011 (video 12), come a Idlib nell’agosto 2011, o a Daraya nel febbraio 2012.

Al cantore di quelle proteste di piazza nella città di Hama, Ibrahim Qashush, che coniò lo slogan “Bashar vattene, hai perso la tua legittimità”, le forze di sicurezza tagliarono la gola e strapparono le corde vocali. Al disegnatore satirico Ali Ferzat spezzarono le mani (123). Al pianista dissidente Malik Jandali picchiarono brutalmente gli anziani genitori (123).

Al pari di questi noti “personaggi”, il regime trattò anche comuni cittadini disarmati e manifestanti che vennero arrestati, picchiati (video 1234567), torturati (video 1234) o uccisi dai soldati del regime (uso il termine “soldati del regime” perché queste operazioni non venivano affidate ai soldati siriani di leva, spesso confinati nelle caserme per paura che disertassero).

Nemmeno alle donne venne risparmiato questo trattamento: furono arrestate (video 12), torturate e violentate in carcere o nelle loro case da miliziani del regime (video 12), come denunciava anche l’organizzazione internazionale per i diritti umani, Human Rights Watch (12).

Qualche rappresentante della comunità siriana in Italia, sostenitore di Asad, arrivò allora a dire che la parola shabbiha (12)usata per definire dei gruppi paramilitari fedeli ad Asad (quasi tutti i suoi membri hanno l’immagine del presidente siriano tatuata sul bicipite: 12345), era un neologismo coniato dall’occidente: loro gli shabbiha non li avevano mai sentiti nominare. Nello stesso momento in Siria i soldati governativi cantavano un inno al presidente, definendosi shabbiha, di fronte a un uomo “crocifisso” su un carro armato.

Tutti questi video non sono uno stucchevole amarcord, ma servono a mettere i puntini sulle “I”, se si omette un particolare fondamentale non solo non si è obiettivi nella ricostruzione dei fatti, ma questi non sono comprensibili nella loro complessità.

Il fondamentalismo. Di chi è la responsabilità?

Qualcuno dice: “Noi lo sapevamo, senza il dittatore laico il Paese sarebbe sprofondato nel caos”.

È aver lasciato un popolo disarmato al giornaliero massacro del regime ad aver causato tutto questo.

Fin dal maggio 2011 il regime parlava di terroristi: i manifestanti disarmati erano terroristi, gli attivisti erano terroristi, così come i giornalisti che denunciavano quanto avveniva. Il 16 febbraio 2012 veniva arrestato a Damasco assieme al suo staff Mazen Darwish, direttore del Centro siriano per i media e la libertà di espressione. L’accusa era di “aver pubblicizzato atti terroristici”. Chi si è opposto anche pacificamente al regime siriano è stato accusato di terrorismo, opporsi a un regime in una dittatura è atto di terrorismo.

Secondo Human Rights Watch (Hrw), l’organizzazione internazionale basata a New York e la cui legittimità è riconosciuta dallo stesso presidente siriano Bashar al Asad (in un’intervista alla tv russa nel 2012 ha citato come autorevoli dei reports di Hrw), il tribunale speciale utilizza le disposizioni della legge antiterrorismo per condannare gli attivisti pacifici con l’accusa di favoreggiamento al terrorismo. Le accuse contro gli attivisti fanno riferimento formalmente ad “atti di terrorismo”, ma di fatto vengono applicate a una sorta di “reati” che nulla hanno di terroristico, come distribuzione di aiuti nelle zone liberate, partecipazione alle proteste e documentazione delle violazioni dei diritti umani.

L’immobilismo americano e occidentale non ha riempito il vuoto creatosi in alcuni territori persi dal regime, in quelle aree conquistate inizialmente dall’Esercito libero siriano (Esl). Il sostegno a quello che era principalmente un esercito a-confessionale è stato blando, il sostegno anche morale alla società civile che resisteva, agli attivisti e agli organismi di denuncia delle violazioni è stato nullo.

Allora, il geo-politologo nostrano dormiva, quando non sosteneva esplicitamente Asad.

Quel vuoto tuttavia è stato riempito velocemente grazie agli ingenti finanziamenti dei sostenitori privati dei Paesi del Golfo, che hanno fatto la loro scelta, i loro cavalli vincenti non erano i pacifisti e gli attivisti, nemmeno alcune brigate laiche dell’Esl, ma salafiti e jihadisti pronti a imporre in Siria un Islam di stampo wahhabita o estremista.

Alcune premesse si erano già avute durante l’assedio di Baba Amr, a Homs (gennaio-febbraio 2012). Nel suo “Taccuino siriano” Jonathan Littell riporta un discorso con un combattente, racconta Muhannad: Ci sono dei morti tutti i giorni. La posizione della Lega araba è debole, la posizione internazionale è debole, quindi tra noi prende piede l’idea del jihad… Vogliamo che tutti i combattenti del mondo arabo vengano a combattere con noi… Se si passa al jihad, si passa alla fase della rivoluzione militarizzata”.

Ma un altro combattente replicava: No, se lo si fa, si passa a una guerra generalizzata”.

Scrivevo allora che il massacro continuo dei siriani e il mancato appoggio alla società civile non violenta, avrebbe causato una confessionalizzazione del conflitto e un maggiore rischio in futuro per le minoranze.

 (continua…)

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