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E i numeri dicono che... in Italia si guadagna di meno, ma si lavora di più

Leggere le statistiche OCSE riserva, a chi si sia fatto delle idee sulla nostra economia solo seguendo i servizi dei giornalisti televisivi, più di una sorpresa.

Ho notato, dai commenti ad un mio precedente articolo, che molti non solo ignoravano che in Corea del Sud ci fossero i salari più alti del mondo, ma pure che i salari italiani fossero i più bassi tra quelli dei paesi maggiormente sviluppati: i 23esimi di tutta l’OCSE. Peggio di noi, ormai, in Europa occidentale, ci sono solo i portoghesi, ma, se si considerasse anche il diverso potere d’acquisto, state sicuri – vivo a un tiro di schioppo dal Portogallo – che saremmo dietro anche a loro.

Due tipi di obiezioni mi sono state mosse e mi è parso il caso di andare a cercare qualche dato prima di rispondere.

La prima è che in Italia si lavora poco. Bene, ho da comunicarvi una grande sorpresa: nel 2008 l’Italia era il paese del G7 in cui si lavorava di più. Più che negli Stati Uniti, secondi a poca distanza, e in Giappone, solo terzo. In confronto agli altri paesi europei, poi, il nostro pare abitato da una razza d’inossidabili stacanovisti: un italiano, in media, lavora 1802 ore l’anno, ovvero 372 ore in più delle 1430 di un tedesco – fanno sette ore e passa in più alla settimana, 46 giorni in più all’anno.

L’altra obiezione che mi è stata mossa è che il lavoro in Italia, anche se gli stipendi sono bassi, costa molto perché la tassazione è elevata; è un’obiezione in parte fondata e in parte falsa.

Falsa perché anche considerando tasse e contributi un lavoratore italiano costa poco più di 40.000 dollari l’anno, il che mette il nostro paese al 21esimo posto nell’OCSE per quanto riguarda il costo del lavoro, ancora una volta davanti al solo Portogallo, tra i paesi occidentali, e distaccato di un buon 20% dalla fatidica Corea dove un lavoratore, in media, di dollari ne costa 49.000 l’anno, e ancora di più da paesi industrializzati dell’occidente dove un lavoratore costa, in media, ben più di 50.000 dollari l’anno.

In Germania, nel 2010, oggi, un lavoratore costa alla propria impresa 61.600 dollari l’anno, oltre il 50 per cento più che in Italia, mentre in Francia, di dollari, ne costa 51.200, quasi il 30 per cento in più.

Una cosa è vera: con un cuneo fiscale al 46,5 per cento siamo uno dei paesi in cui il lavoro è più tassato, sesti in tutta l’OCSE, anche se dietro alla Francia, dove il cuneo incide per un 49,2% del salario lordo ed alla Germania dove arriva al 50,9%.

Conoscere questi dati non ha un importanza meramente “culturale”; sono questi numeri che ci devono far riflettere su quale sia il presente e ancora di più il futuro del nostro paese.

Grazie a questi numeri possiamo affermare che se è prioritario aumentare i salari, anche solo per ridare fiato al mercato interno, questo si può fare, senza aumentare il costo del lavoro, trasferendo sulle rendite una parte delle tasse pagate oggi dai lavoratori, come pure sappiamo come andrebbero accolti i continui inviti alla moderazione salariale – più moderati di così si muore… di fame - da parte di Confindustria: a pernacchie. 

Il costo del lavoro, in particolare se si tengono conto le ore lavorate annualmente, in Italia è già bassissimo. Sempre confrontandoci con la Germania, considerando tutti i dati che vi ho fornito, risulta che un’ora di lavoro di un italiano costa 22,2 dollari; circa la metà di quanto costi quella di un tedesco, 43,1 dollari.

Imputare al costo del lavoro la nostra mancanza di competitività ha un senso, dunque, solo se si pensa di appartenere alla stessa categoria di paesi come il Messico, non se si guarda al resto d’Europa.

La scarsa competitività del nostro sistema economico non nasce ieri; non è colpa di Berlusconi o Prodi, ma è il frutto di quattro decenni, almeno, di scelte sbagliate da parte dei governi e delle imprese.

Da quando l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori, prendendo atto che non eravamo più un paese in via di sviluppo, ha portato il costo del lavoro italiano a livelli comparabili, seppure sempre più bassi, a quelli degli altri paesi sviluppati, le nostre imprese anziché cambiare produzioni o aumentare la qualità di quel che già facevano, per poter pagare stipendi decenti ai propri lavoratori, hanno usato due armi per mantenersi competitive: la prima è quella delle continue svalutazioni della lira; la seconda, specialmente da quando l’entrata nell’Euro ci ha tolto la prima, quella di un feroce contenimento dei salari che ora sono, come avete visto, bassissimi.

E’ nella mancanza d’innovazione, in particolare d’innovazione nei prodotti, il male del nostro sistema economico, oltre che nella mancanza di competitività – costo dell’energia, difficoltà nei trasporti, risibile efficienza della pubblica amministrazione – del Paese nel suo complesso.

Per risalire la china dovremo agire su più fronti, a cominciare da una riforma scolastica che aumenti il grado d'istruzione dei nostri lavoratori e da una serie di misure che incoraggino l’attività di ricerca sia nelle singole aziende, quando le dimensioni lo consentano, che presso le associazioni imprenditoriali presenti nei tanti distretti produttivi italiani: dobbiamo tornare ad innovare altrimenti, come potenza industriale, siamo destinati a scomparire.

Dovremmo fare anche tante altre cose: dovremmo ridurre la bolletta energetica alle nostre aziende e offrire loro un sistema di trasporti efficiente; dovremmo ridare efficienza alla pubblica amministrazione, diminuire e razionalizzare gli adempimenti. Dovremmo fare di tutto, ma non certo diminuire il costo del lavoro: eventuali riduzioni del carico fiscale dovranno andare nelle tasche dei lavoratori, non servire a migliorare la competitività delle imprese; una competizione fatta a quel modo non è quello di cui abbiamo bisogno: dobbiamo competere aumentando la produttività – e servono investimenti – e la redditività del nostro lavoro – e servono altri investimenti -. Questo dobbiamo fare se non vogliamo diventare come il Messico prima, e su quella strada siamo bene avviati, e la Cambogia poi.

Il Ministro Castelli, durante l’ultima puntata di Annozero, ha affermato che “ in Italia dopotutto non va così male”.

Ha ragione; in Italia non va così male: per il lavoratori dipendenti va peggio, molto peggio.

Va malissimo.

 

Credits Foto: zeusnews.it

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