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Due storie di ordinaria miseria

Un uomo inciampa e va a sbattere con la tempia contro una panchina divelta, finendo al Pronto Soccorso. Un altro viene picchiato senza motivo. Due storie semplici, banali, di quelle che non meritano neppure un trafiletto in cronaca. Due storie che però hanno come protagonisti persone che, contro quello che è successo, non potranno far sentire la propria voce. Sono clochard. Senzatetto, o “senzafissadimora” che fa politicamente corretto, barboni, poveri. Chiamiamoli come vogliamo. Tanto, loro non possono farlo. Loro non possono chiamare nessuno.

Gaetano, detto “Buono”, il pomeriggio di mercoledì 27 gennaio 2011 sta gironzolando nei pressi della stazione dei Campi Flegrei, nel quartiere di Fuorigrotta, a Napoli. Il marciapiede dei giardinetti antistanti la stazione è ridotto a colabrodo: buche di mezzo metro, mattonelle scrostate, spazzatura ovunque. E una panchina rovesciata, con uno spuntone di ferro che sporge pericolosamente. Gaetano, intirizzito dal freddo e dagli stenti, mette un piede in una buca e si ritrova a cozzare violentemente contro il ferro, chiaramente coperto di ruggine. Dalle parti della tempia, zona delicatissima. Inizia a uscire sangue, si sente un grido di dolore: oltre il male, urla in lui la frustrazione di una vita già durissima, al gelo, nella miseria. E la malasorte che stavolta fa piovere sul peggior bagnato. Unica consolazione, la solidarietà degli amici. Gli si fanno subito vicino, lo fasciano, lo confortano anche con carezze. Poi l’arrivo dell’ambulanza, cui fa seguito la mia stupida domanda. “Lo sa che può far causa al Comune?”. Mi guardano come si guarda un pivello. Sorrisi amari: “Noi non possiamo nulla”, dicono quasi in coro. Almeno la domanda stupida ha il merito di aprire la discussione, e la scoperta di come vivono dieci uomini in una città europea.
 
Non sono novità, ma dettagli che è meglio rimandare a mente ogni tanto. Dormono all’interno della stazione, alcuni sulle panche, altri per terra. Mangiano alla mensa della Caritas, si lavano nei bagni pubblici. Lì fanno anche le docce, a dispetto delle apparenze ci tengono molto alla pulizia, seppur sommaria. I vestiti li recuperano presso chiese ed enti di assistenza. Sono una piccola comunità fissa, diversa per numero, e forse anche per senso comune, da quella di piazza Garibaldi. Tra loro c’è una donna, anziana, molto materna nei confronti di tutti. È bella, ha un’aria di serenità impeccabile. Ammassati in un capannone alla fine delle banchine ferroviarie, i signori tengono stipati i loro indumenti e oggetti. Distano almeno trecento metri dall’area di transito pubblico, non danno fastidio a nessuno. “Tra l’altro mettiamo tutto in ordine, cerchiamo di non rendere questo posto un casino”, confida un altro dei clochard. Eppure poche sere fa, con un blitz la polizia ferroviaria ha rastrellato tutti gli oggetti, e li ha portati al macero. “Avevo anche dei documenti”, dice rammaricato un altro. Che parla bene l’italiano e ha l’aria di chi, con i documenti, ha perso ogni traccia di identità.
 
Così come non si spiega perché, sempre in questi giorni, hanno pestato Mimmo. “Sono stati i poliziotti, ed io non saprei dire perché”. Forse li hai provocati? “Figuriamoci se mi metto a perdere tempo con loro, ho già tanti guai”. Lo hanno sorpreso mentre dormiva. Alla prima rimostranza sono partiti i pugni. Mostra il braccio ferito. Dice che è contuso anche al collo e da quella notte non può muoversi bene. Mimmo non ha neanche chiamato l’ambulanza. Sfiduciato in tutto, mentre racconta non è arrabbiato. Ha solo un’infinita, disperata rassegnazione e nessun futuro davanti agli occhi.

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