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Dopo 75 anni le “donne di conforto” chiedono ancora giustizia al Giappone

Oggi è il giorno della memoria per le “donne di conforto”, espressione vergognosa ma passata alla storia per descrivere le ragazze e le donne che vennero ridotte in schiavitù sessuale dall’esercito del Giappone prima e durante la Seconda guerra mondiale.

Si stima furono 200.000, per lo più sudcoreane, le donne costrette a lavorare nei bordelli gestiti dai militari giapponesi.

Quello delle “donne di conforto” non fu altro che un sistematico sfruttamento sessuale di massa, fatto di stupri, torture e uccisioni. Molte donne si tolsero la vita. Le sopravvissute vivono in povertà, isolate, stigmatizzate, umiliate, in condizioni di salute fisica e mentale pessime.

Negli ultimi 30 anni, in almeno 10 casi le sopravvissute si sono rivolte ai tribunali giapponesi per ottenere giustizia ma hanno sempre perso.

Per il Giappone, la questione è chiusa, risolta “in modo definitivo e irreversibile” da un accordo bilaterale sottoscritto nel 2015 con la Corea del Sud.

Per le sopravvissute, si è trattato di un accordo indegno e vergognoso: il Giappone non ha fornito scuse sincere, non ha riconosciuto le violazioni dei diritti umani commesse dalle sue forze armate e non ha accettato di assumersi responsabilità di tipo legale.

Così, nel 2016 20 persone, in buona parte sopravvissute, hanno presentato una denuncia al tribunale distrettuale centrale di Seul, la capitale della Corea del Sud, chiedendo un risarcimento da parte del Giappone. La prima udienza si è svolta lo scorso novembre.

Sempre nel 2016, altre 12 sopravvissute hanno presentato un ulteriore esposto.

Questi ricorsi costituiscono l’ultima possibilità per le sopravvissute di ottenere giustizia. Le speranza, tuttavia, sono poche perché il governo giapponese rivendica l’immunità che spetta agli stati.

Un’immunità che non dovrebbe valere in una vicenda nella quale furono commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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