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Discriminazione | Io: transessuale, donna, musulmana e femminista marxista

Le discriminazioni della società capitalista 

Giusy Sbrisson è un personalità eclettica e complessa: transessuale, donna, femminista-internazionalista, marxista, ex militante di Lotta Continua, musulmana e attivista presso MIT - Movimento Identità Transessuale. Giusy da anni conduce battaglie sociali e civili contro la tratta delle donne e per i diritti dei transessuali nell’Islam.

1. Potrebbe illustrarci la sua storia politica e personale?

Il mio nome all’anagrafe, fino a pochi mesi fa, era Giuseppe Sbrisson, nato a Venezia il 24 maggio 1964, ma da poco sono Giuseppina Maggian, sono una transessuale, nella sua fase di transizione per divenire donna completa. Perché? É ciò che sentivo e sento dentro di me; sono donna nel cuore, nell’anima, nei sentimenti, nelle emozioni, nel mio modo di parlare, di comportarmi, di essere, indipendentemente dal mio aspetto esteriore. Perché l’identità sessuale e ciò che si sente dentro e non l’aspetto biologico. Tuttavia il mio cammino e ancora lungo, e per raggiungere ciò, la mia vita è piena di sofferenze, violenza, soprusi, razzismo e discriminazione. Non sono solo una transessuale, ma sono anche femminista, musulmana e marxista. Ovvero una donna che pensa e che si batte contro questa società borghese machista, che intravede nella donna e soprattutto in noi trans degli oggetti da sfruttare, per il proprio piacere. Ma ciò che sento dentro e che vedo è che noi donne e transessuali siamo un universo meraviglioso, che deve prendere coscienza di sé, del proprio potenziale. Abbiamo subito angherie e soprusi e un lavaggio del cervello che non solo ci rende succubi del machismo e del razzismo, ma lo accettiamo come se fosse normale. Ed è triste che ci siano donne che affermano di essere emancipate quando non è così. Sono cresciuta a Venezia, mio padre era un nobile. A me non interessa la nobiltà, per me i nobili sono solo dei parassiti della classe proletaria. Mia madre invece era una donna molto moderna e aperta di mentalità, cresciuta dai miei nonni materni su valori marxisti e partigiani. Non ho mai capito cosa avessero in comune, lui tipico esempio del maschio borghese e di destra, mia madre comunista e femminista. Io fin da piccola (parlerò del mio passato sempre al femminile) mi sono sentita diversa dagli altri ragazzi, non avevo quell’interiorità da maschio. Chi mi stava vicino diceva che trasmetto delle “vibrazioni” da donna, sono buona, gentile, sensibile, affettuosa, con un’emotività e sentimenti femminili. E lo si capiva, come dice mia sorella e mia madre, da come camminavo o come accavallavo le gambe, come una donna. Ma vivevo in un ambiente in cui percepivo la violenza contro mia madre. Mio “padre” non sopportava una donna che pensava, indipendente e libera. Anche nei miei confronti, fin da piccola, ho subito la prima violenza verso la mia identità sessuale di donna, subivo un lavaggio del cervello, dovevo essere “uomo” ma io non ero e non lo sentivo. Mi piaceva frequentare le ragazze, mi sentivo a mio agio con loro, parlavo di quei discorsi che fanno tutte le ragazze di quell’età… Mia madre non diceva niente ma m’incoraggiava a essere me stessa, ma dovevo nascondere la mia identità. La prima violenza mentale subita fu un trauma. Per non parlare a scuola, vedere un “ragazzo” comportarsi come una ragazza, era un affronto per loro, questa è la tipica cultura borghese machista, che non accetta che un maschio esteriore rifiuti l’identità biologica, per abbracciare la sua identità interiore di DONNA. Ma non finisce qui la violenza peggiore che mi ha segnata, una violenza mentale e interiore, l’ho subita da mio “padre”, il quale non potendo accettare l’affronto di un figlio “fr…o” ed effeminato a 14, ripeto a 14 anni, mi ha portata con lui in un postribolo, dove vivevano le nostre sorelle schiave del sesso costrette a prostituirsi e sfruttate per il loro corpo, per dare piacere al maschio. Una violenza, anzi una doppia violenza, verso di me, giacché donna dentro, e soprattutto fu violenza fisica. Mi voleva costringere a fare sesso con una nostra sorella sfruttata. Non l’ho fatto, abbiamo parlato insieme, non ho voluto farlo altrimenti mi sari reso colpevole di violenza carnale, soprattutto per rispetto nei miei confronti, come donna-solidale con le nostre sorelle schiave del sesso. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, mi ha ripudiata, io subito dopo ho fatto coming out, come si dice adesso. Ho dichiarato apertamente la mia vera identità sessuale. Mia madre l’aveva accettata, anzi, era contenta poiché lo aveva percepito anni prima. Ma vivevamo in una casa, dove il padre faceva il padre-padrone ed eravamo succubi. Lui non mi voleva più, alla fine mia madre ha chiamato mia zia, chiedendole di prendermi a casa sua ed educarmi al femminile. Ancora non pensavo di cambiare sesso, ero piccola, solo un anno fa ho iniziato questo processo per affermare, anche esteriormente, la mia identità di donna, musulmana, femminista marxista e impegnata nella difesa dei diritti LGBTIQ. Mia Zia Mariolina, defunta da poco, fu una convinta femminista marxista, internazionalista, militante attiva di Lotta Continua. Mi ha accolta con gioia a casa sua, mi ha sempre trattata come fossi sua figlia, coma ragazza e donna. Mi ha educata con principi molto semplici, sul fatto che saremo noi donne a creare la vera rivoluzione marxista, la vera società proletaria, in quanto gravate sia dai capitalisti, che dai compagni maschi, che tornando a casa ci opprimono. Sul ripudio dell’identità nazionale, vere prigioni della classe proletaria, con cui il capitalismo borghese ci mette gli uni contro gli altri, creando disuguaglianze e razzismo, sfruttamento, usando anche violenza contro di noi, più di tutte la violenza la subiamo noi donne e noi trans. Crediamo in una società interrazziale, caratterizzata da infinite diversità di culture, diversità sociali, diverse religioni, in infinite combinazioni, dove tutte le proletarie e i proletari del mondo interagiscono assieme, fondendo popoli, usi e costumi e valori terzomondisti. Insomma abbiamo accolto la diversità nella nostra casa. Abbiamo educato le nostre figlie a questi valori, ma soprattutto al fatto che esistono identità sessuali interiori e non biologiche, che l’amore non ha sesso, non ha colore o razza, che esistono varie famiglie, non solo etero, gay, lesbiche. Abbiamo conosciuto famiglie nella nostra stessa situazione, affinché comprendano meglio i nostri valori. Hanno sempre saputo sia mia moglie, sia le mie figlie, del mio essere donna, mi hanno sempre chiamata “mamma Giusy”. In seguito abbiamo accolto la cultura araba e quella persiana, abbiamo abbracciato l’Islam, siamo più sciite che sunnite e il nostro Islam è quello così-detto “moderato” e tollerante (anche se non amo questi termini riferiti all’ Islam). Lottiamo per un internazionalismo femminista-marxista dal basso, abbiamo accolto nella nostra comunità, trattandosi di un casolare contadino molto grande, alcune mie sorelle trans e due ex schiave del sesso, le abbiamo liberate dalla prostituzione e dallo sfruttamento. Abbiamo accolto anche alcune donne arabe, bambini e ragazzi arabi, in casa nostra, perché riteniamo, giustamente, che abbiano tutti il diritto di vivere qui da noi, di esistere e lavorare. Combattiamo gli egoismi, ci battiamo per la libertà di culto, la libertà di vivere secondo i propri usi e costumi. I nostri valori sono convivenza e dialogo, lotta quotidiana contro discriminazioni e i razzismi vari. Sono convinta come donna, transessuale, musulmana e femminista-marxista del nostro ruolo centrale e primario nella società. Purtroppo la società borghese e maschilista ha imposto per secoli violenze, soprusi, angherie, autentici lavaggi del cervello per rendere noi donne non consapevoli della nostra forza culturale, sociale, politica, e di essere l’autentico sesso forte.

2. Da schiave del sesso a sex-workers: che ne pensa di quest’ultimo anglicismo-linguistico, recentemente molto in voga?

Nel 1897, due donne americane pubblicarono un rapporto scioccante circa le condizioni di vita delle prostitute che servirono i soldati dell'esercito britannico in India (Elizabeth W. Andrew and Katharine C. Bushnell, The Queen's Daughters in India, with prefatory letters by Josephine E. Butler and Henry J. Wilson, London 1899). Alcune delle donne furono semplicemente vendute ai bordelli militari dai membri della famiglia o comunque furono costrette a prostituirsi (indiane povere o anche donne inglesi provenienti dai “quartieri-putridi” del proletariato urbano). Tutte queste donne furono confinate in zone appartate e sottoposte a trattamento medico obbligatorio per malattie veneree. Presto il rapporto divenne noto tra le femministe europee. In una conferenza durante la "Nationale Tentoonstelling van Vrouwenarbeid" (Mostra Nazionale del Lavoro delle donne) nei Paesi Bassi nel 1898, il pubblico fu sconvolto nel conoscere il destino delle prostitute indiane. Secondo un opuscolo francese che è apparso nello stesso periodo, le cose non erano molto meglio nel resto dell’Europa. Di fronte a ogni presidio militare era possibile trovare un bordello, in cui “lavoravano” donne povere, abbandonate o reiette dalla società. Tante giovani donne povere sono state infettate e "deformate" dai soldati (Savioz, Eén moraal voor de twee geslachten: rede uitgesproken door Savioz - signora Avril de Sainte-Croix- op het internationaal congres over den toestand en de rechten der vrouw, gehouden ti Parijs van 5-8 september 1900, Amsterdam 1900). Con il crescente numero di contatti internazionali, diventò sempre più chiaro per le femministe che lo sfruttamento sessuale delle donne nella prostituzione è un fenomeno internazionale. In sostanza, in tutti i casi, la prostituzione si rivela un male terribile: una forma archetipica di subordinazione sessuale di tutto il sesso femminile. Quando il rapporto sull'esercito britannico venne fuori in una traduzione olandese, la sua prima pagina mostrava una foto di una donna indiana dall'aspetto sottomesso che veniva tenuta in catene (Elizabeth W. Andrew and Katharine C. Bushnell, Tot ontucht gedoemd. Treurige toestanden in het Engelsche leger in Britsch-Indië, Amsterdam 1902, 12). Questa immagine di "schiavismo" è in netto contrasto con un'altra immagine che è stato creato quasi un secolo più tardi. La copertina della rivista "Puttana", in olandese Vluggertjes (Quickies), nel 1995 mostra una donna assertiva, dall'aspetto gradevole, con abbondante trucco e felicemente provocante. 

3. Come interpretare le circostanze storiche che producono due immagini contraddittorie della prostituzione? 

Entrambe le immagini, in un modo o nell'altro, sono rappresentazioni d’interessi delle donne, entrambe sono "politiche", nel senso che esse sono finalizzate a cambiamenti nell’ideologia politica e nelle leggi degli stati, ed entrambe sono incorporate in una qualche forma di politica femminista. 

4. In che modo queste immagini (schiava del sesso sottomessa e prostituta felice ed autoderminata) riflettono le diverse posizioni femministe nei dibattiti sulla sessualità-commerciale? Come si riflettono nei cambiamenti politici e giuridici?

Queste domande avranno una risposta attraverso un'analisi storica delle politiche prostitutorie nei Paesi Bassi dagli ultimi decenni del XIX secolo in poi, con focus principale sui discorsi all'interno del movimento delle donne. I Paesi Bassi sono un caso particolarmente interessante poiché il bordello, che esisteva dal 1911, è stato abolito nel 2000. È notevole che non solo i bordelli olandesi siano stati tra i primi, in Europa, a essere legalizzati, ma anche siano stati tra i primi ad essere vietati o proibiti. Il concetto di legalizzazione corrente, nei Paesi Bassi è in parte inserito in un ordine del giorno femminista per migliorare la vita delle donne nel commercio sessuale. La prostituzione è una questione complessa e controversa per gli storici professionisti così come per le femministe oggi. Chi è "una prostituta" è condizionata, come tutti noi, da circostanze storiche specifiche. La maggior parte delle ricerche sulla regolazione della prostituzione nel XIX secolo ha chiarito che la categoria di "prostituta" fu un’invenzione di chi ha tentato di controllare le "donne immorali", come una descrizione sulle condizioni di vita attuali di alcune donne. Nel corso della storia, le prostitute hanno sempre attirato l'attenzione delle autorità amministrative e giudiziarie, spesso come oggetti di punizione o disciplinamento. Tuttavia, con l'aumento delle nazioni democratiche e moderne, la prostituzione e lo stato-repressivo allacciano una nuova rete di relazioni. Le autorità nazionali e locali sviluppano nuovi metodi polizieschi e, per le prostitute, emergono nuove forme di "tolleranza". Inoltre, anche se considerata immorale nella maggior parte dei periodi storici nei Paesi Bassi, nella seconda metà del XIX - la prostituzione diventa sempre più carico di significati sulla femminilità. L'immagine della puttana e l'idea di "corretta womanhood" sono create nello stesso periodo, come immagini speculari, in cui la prostituta appare come l'inverso della donna "normale". In realtà, sia la mia esperienza personale che i diversi studi sul settore, sia storici che antropologici, rivelano che la prostituzione, in fondo in fondo, non è mai stata veramente “demonizzata”. Al contrario, è sempre stata considerata un “male necessario”. Sarò più chiara e comprensibile: non esiste stato o nazione al mondo che miri all’abolizione della prostituzione. Se mai, è l’esatto contrario, cioè tutti gli stati mirano alla “tolleranza” del fenomeno (nel senso etimologico del termine), a un suo “controllo” e “disciplinamento” ma non alla sua abolizione o all’eventuale scomparsa del fenomeno. Sono due cose ben diverse e distinte: chi desidera “disciplinarti” non desidera “ucciderti”. Al contrario, desidera usare e rubare il meglio di te. In ultima analisi: sia gli stati “liberali” che gli stati “autoritari” odierni vivono e si basano sulla prostituzione. Un certo tipo di femminismo alla “moda” o “liberista”, non ha la gittata visuale abbastanza lunga da vedere e capire che se la prostituzione è stata, in passato, repressa e disciplinata, lo è stata esclusivamente per ragioni economiche. Cioè le prostitute e le contigiane non lavorano (nel senso produttivo e materiale del termine: ossia non producono prodotti, non producono beni di consumo) e non allevano figli (se lo fanno lo fanno autonomamente, usufruendo anche della carità ecclesiastica o del welfare state). In uno stato nazionalista tradizionale la produzione di beni di consumo e il “numero” (i figli) è importante, poiché la potenza di un popolo si basa sul numero demografico e sulla produzione di beni di consumo. La donna eterosessuale, moglie e madre è triplicemente produttiva per uno stato tradizionale: produce figli e li alleva, svolge compiti domestici gratuitamente e magari lavora anche fuori casa (producendo beni di consumo o elargendoli). La miopia di un certo femminismo-liberista o “libertarista” non comprende che il potere maschile non ha mai cercato di eliminare la prostituzione, perché è funzionale al patriarcato. Se mai tentò di arginarla perché un numero eccessivo di prostitute avrebbe messo in crisi l’economia dei nascenti stati-nazione. Mentre il giusto numero di prostitute (non poche ma nemmeno tante) avrebbe consolidato il suo potere. Oggi il numero di prostitute non è più preoccupante per i nostri politici e per i nostri potentati economici. Se mai, il patriarcato post-moderno, ha il problema opposto: tentare di glamourizzare (scusate il neologismo) il più possibile la prostituzione. Cioè renderla attraente e appetibile, per le giovani donne, come prospettiva di vita o come “lavoro” occasionale. Aumentare il numero di schiave del sesso o di sex-worker “volontarie”, in un mondo dove la disoccupazione è endemica, dove il lavoro tradizionale è un lusso più che un diritto, dove si verificano continue crisi di sovrapproduzione di merci, la prostituzione indotta (la così detta prostituzione “volontaria”) e la schiavitù-sessuale è uno dei metodi più efficaci e veloci per “smaltire” il crescente proletariato femminile, ma anche parte di quello maschile (è sempre più diffusa la prostituzione maschile, soprattutto omosessuale). In ultima analisi: la prostituzione non ha nulla di rivoluzionario o “sovversivo” ma è un potente dispositivo sistemico, utile a oleare il sistema turbo-capitalista e super-imperialista in cui il patriarcato e lo sfruttamento del corpo femminile ne resta la colonna portante.

 5. Le donne e l'ordine pubblico, l’ordinamento della prostituzione nel XIX secolo fino ai nostri giorni, com’è stato gestito?

L'aumento del femminismo nei Paesi Bassi era intimamente connesso alla nascita del cosiddetto abolizionismo, il movimento internazionale che ha cercato di porre fine a quel fenomeno che è conosciuto come ordinamento statale della prostituzione. L’Abolizionismo è nato in Inghilterra intorno al 1870 e sarà per sempre collegato al nome della sua leader carismatica: Josephine Butler. Le idee di Butler hanno ispirato diverse generazioni di femministe. Il termine "abolizionismo" è collegato con la storica lotta contro la schiavitù nera. Concetti e immagini legate alla schiavitù nera sono stati trasformati per adattarsi al caso della prostituzione, e, in particolare la parola "schiavitù" per descrivere le sofferenze delle prostitute nei bordelli o come oggetti di politiche statali. Le abolizioniste si sono opposte e tutt’ora si oppongono al taglieggio statale delle prostitute ed al disciplinamento poliziesco. Nel 1811, quando sotto il dominio francese, l'Olanda ha adottato il codice penale francese come il nuovo codice penale, il divieto di "whorery" fu revocato e i bordelli furono autorizzati a patto che non "promuovessero la dissolutezza" di minori di entrambi i sessi. Secondo la legge, gli uomini e le donne adulte potevano impegnarsi in scambi sessuali commerciali, ma né gli uomini né le donne di età inferiore potevano essere autorizzati a visitare o lavorare nei bordelli. Anche se la nuova legge rese difficile alle autorità arrestare prostitute solo per motivi legati al comportamento immorale, come era stato fatto in passato. Diciamo che la legge ha il potere di disciplinare e punire in modo diverso. Nuovi metodi di repressione poliziesca contro le prostitute si sarebbero sviluppati. Una ragione importante per cui questo sarebbe accaduto fu la paura crescente di malattie veneree, o - come la maggior parte contemporanei l’ avrebbero chiamata - "sifilide". Nel tentativo di controllare la diffusione reale o presunta di "sifilide", le autorità locali o nazionali in molti paesi europei hanno introdotto un sistema controllato dallo stato per disciplinare medicalmente le prostitute. In Francia e nei Paesi Bassi comportò una qualche forma di registrazione delle prostitute da parte della polizia e un insieme di regole circa le condizioni per ottenere e mantenere una licenza. Le regole più note erano: ispezioni mediche obbligatorie e il trattamento obbligatorio per "sifilide". Quindi esisteva una serie di regolamenti polizieschi su come gestire "malati" e prostitute "sane". Perciò era un affare comunale; alcune città avevano norme igienico-sanitarie, mentre altre non le avevano implementate. La maggior parte delle norme sono state introdotte nel periodo tra il 1860 e intorno al 1875, dopo la promulgazione della Gemeentewet (legge comunale) nel 1852. Spesso la polizia adottava misure drastiche contro le prostitute poco “disciplinate”, le prostitute erano considerate delle reiette da controllare ma era, ovviamente, legale andarci a letto. Spesso gli abusi polizieschi, come succedeva spesso in Italia durante il periodo fascista, sfociavano nella corruzione e nel ricatto. Regolamentare la prostitute, per un secolo e tutt’ ora, significa semplicemente giustificare un rigido controllo poliziesco su di esse, nonché legalizzare il “taglieggio” delle stesse prostitute da parte dello Stato e dei privati (cioè pagare tasse statali, pagare tenutari, “protettori”, e quant’ altro). Anche se il sistema repressivo-poliziesco nelle città olandesi è stato relativamente allentato rispetto a luoghi più noti come Parigi o Berlino, i poliziotti tuttora potrebbero prendere le donne per strade e gestirle in base alle norme di polizia prescritte, o peggio. Perciò mi chiedo: cos’ ha di “libertario” e “rivoluzionario” la regolamentazione della prostituzione? La Regolamentazione della prostituzione è sempre stata la retorica dei modelli liberisti o fascisti (promossa per lo più dagli stati fascisti-confessionali: il fascismo italiano, il franchismo, le varie dittature sanguinarie sud-americane, etc.) per sfruttare il corpo femminile sessualmente, rendere lo stesso sfruttamento una fonte di lucro per lo stato e disciplinare, con metodi polizieschi, le prostitute. Nella regolamentazione statale della prostituzione è ampiamente documentata, da un numero sempre crescente di storici, il cattivo trattamento delle prostitute sotto una polizia e una guardia-medica tutta al maschile. Basti ricordare quello che accadde nei bordelli italiani sotto il regime fascista. La stessa trans Vladimir Luxuria ricordò i tristi eventi che colpirono le prostitute sotto il regime fascista, attraverso varie opere teatrali. Luxuria ovviamente non si può certo definire una “bigotta” o un’ autoritaria. Una vasta gamma di testi giuridici e politici furono permeati da un profondo sospetto della sessualità femminile. La paura di accuse penali ingiuste o il "ricatto" da parte di una donna viziosa è stata trovata in una grande varietà di testi giuridici, come i trattamenti di medicina legale sullo stupro, dibattiti legali circa la madre non sposata, e le discussioni politiche sulla morale sessuale. Inoltre, poiché il desiderio sessuale maschile doveva essere sollevato in qualche modo, e la masturbazione era pensata come innaturale per il maschio, la prostituzione è stata vista come un "male necessario".
 

6. In Occidente esistono paesi che siano riusciti in maniera efficace a debellare la prostituzione?

Il dibattito sulla prostituzione è denso di tensione morale, manipolazione e confusione. Un documento storico molto importante è stato la Convenzione per la repressione della tratta di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione di altri delle Nazioni Unite, del 1949. Tuttavia, a più di settant’anni dall’adozione del documento, i risultati sono scarsi, la prostituzione si è diffusa a macchia d’olio, assumendo proporzioni inimmaginabili. Ogni stato occidentale, afferma di voler “regolare” o “abolire” la prostituzione ma, di fatto, la incoraggia. I paesi che hanno impostato la propria legislazione sul modello della Convenzione, i più numerosi, tra i quali l’Italia, hanno sviluppato modelli così detti “abolizionisti”, ma, sostanzialmente, non si persegue né clienti, né chi occultamento specula sulla prostituzione. L’Italia riporta un numero esacerbato di night-club e locali in cui si esercita, in forma più edulcorata o dissimulata, la prostituzione. Donne che subiscono “taglieggi” e ricatti-politici (soprattutto se si tratta di prostituzione d’ alto borgo) poiché diventano “moneta di scambio” per i vari favoritismi (non so se ricordate il caso Mele o quello più noto ed eclatante si Silvio Berlusconi e le sue olgettine) tra uomini che gestiscono l’ economia ed il potere. In tutti i regimi, che possiamo definire proibizionisti, regolamentaristi o abolizionisti, i sistemi di sfruttamento si avvantaggiano dell’ illegalità e della scarsa trasparenza delle attività di prostituzione. Nei sistemi proibizionisti le forme di sfruttamento si diffondono agevolmente: chi si prostituisce autonomamente è, infatti, più ricattabile, poiché agisce fuori dalla legge. Però forme di sfruttamento si riproducono molto facilmente anche nei paesi “regolamentaristi” poiché nelle varianti che offrirebbero (teoricamente) più garanzie alla persona che si prostituisce (ad esempio in Germania ed Olanda), si diffonde un’ ampio sfruttamento economico contro le prostitute, nonché nuove forme di “paternalismo” statale verso la così detta, “prostituta-legale”. La “prostituta-legale” è percepita come uno strumento di business: dovrà perciò pagare oltre le normali tasse statali, l’eventuale tenutario, l’affitto della location, le bollette del locale o della “vetrina” (acqua e elettricità), nonché ri-subire, anche se in forma più edulcorata, frequenti controlli polizieschi e sanitari ed il “paternalismo” dei servizi sociali. Perciò il lavoro di “prostituta”, nei paesi regolamentaristi, è sottoposto a terribili forme di sfruttamento economico: per garantirsi un margine di guadagno adeguato (che resti solo alla prostituta) ogni lucciola dovrà in media ricevere dai 15 ai 20 clienti al giorno. Lascio immaginare i pericoli igienici e sanitari cui la donna-prostituita si espone quotidianamente. Purtroppo, non sarebbero sufficienti neanche due controlli al giorno a causa dell’intensità del lavoro a cui sono sottoposte. Aggiungo che, in tutti i sistemi regolamentaristi, è la donna prostituita a sottoporsi a continui controlli igienico-sanitari, mai i loro clienti! Inoltre, in questi paesi regolamentaristi (come Germania ed Olanda), anche se le leggi hanno liberalizzato il mestiere di prostituta riconoscendone il fondamento giuridico, la legge tuttavia si applica solo per le prostitute che hanno residenza dei paesi dell’ U.E. La stragrande maggioranza delle prostitute è esclusa dal mercato regolato, alimentando forme di macro e micro-criminalità che, da sempre, caratterizza il fenomeno prostituente. Mentre l’approccio abolizionista, che io ritengo tra i migliori o i più efficaci, a volte fornisce forme di protezione molto deboli, soprattutto nell’applicazione italiana. I sistemi abolizionisti affermano il diritto di prostituirsi in forma autonoma, ma al tempo stesso, riconfigurano la prostituzione come un’attività tra illegalità e legalità. Ad esempio, tutti hanno criticato il sistema abolizionista svedese per aver eliminato la prostituzione in strada o nei locali, e per aver, di fatto, alimentato la prostituzione negli appartamenti privati. Chi attacca con queste argomentazioni la Svezia è ignorante in materia: l’abolizionismo non ha nulla contro la prostituta che si mette in proprio, se mai tatticamente cerca di “abolire” esclusivamente la prostituzione coatta di strada o quella sfruttata da tenutari (in locali privati), proprio per rendere il lavoro della prostituta in proprio (solitaria e autonoma) più agevole. È vero che l’abolizionismo mira a una lenta forma di abolizione della prostituzione ma tatticamente si utilizza un approccio realistico e gradualistico: si sa che la prostituzione non scomparirà da un momento all’altro. Perciò è necessario un lungo lavoro sociale e culturale. Nel frattempo, l’abolizionismo mira a eliminare le forme di sfruttamento-prostituente più violente e clamorose: perciò attacca chi pratica la tratta e i loro clienti, attacca i tenutari dei locali sexy (che speculano sulle prostitute) e i loro clienti, attacca chi getta le prostitute per strada ed i clienti che ne usufruiscono a prezzi stracciati, trattando persino prezzi inferiori a quelli stabiliti dalle stesse prostitute, creando disagio alla prostituta e degrado per le strade. Nel caso italiano, una serie di comportamenti strettamente connessi alla prostituzione, ad esempio il sistema italiano persegue il favoreggiamento della prostituzione o della prostituzione in associazione con altre persone, sono proibiti. Io ritengo che il sistema abolizionista italiano debba aggiornarsi e modernizzarsi. Non perseguire mai le prostitute e le loro scelte (sia se italiane, sia se clandestine o immigrate) ma agire con maggiore durezza verso trafficanti, versi terzi che abusano o lucrano sulla prostituzione (mai sulle prostitute che si organizzano autonomamente) e monitorare maggiormente i clienti (monitorare se comprano schiave clandestine, se picchiano le prostitute, se le molestano, se le insultano, se aggrediscono le prostitute per strada, se bloccano il traffico, se mostrano scarsa igiene e cura del proprio corpo e della propria salute, se infettano le stesse prostitute, etc.). Un autentico sistema abolizionista mostrerebbe maggiore durezza verso gli sfruttatori, verso i trafficanti e verso gli stessi clienti (spessissimo autori di vere e proprie violenze sulle prostitute, esattamente come papponi e tenutari).

7. Come concilia la sua transessualità e la sua militanza LGBTIQ con la sua fede nell’Islam sciita?

In Iran, nazione estremamente confessionale e in cui l’Islam sciita è la religione maggioritaria, una società profondamente conservatrice in cui gli omosessuali sono a forte rischio di esecuzione, l’unione tra una transessuale ed il suo partner è pienamente riconosciuta. La transessualità è stata legalizzata e la possibilità di unione tra una transessuale e il suo partner è legge, cosa impossibile in numerosi paesi fuori dell'Iran, persino in diverse nazioni “occidentali”. Nonostante la mancanza di dati ufficiali, l'Iran è considerato uno dei leader mondiali in termini di numero d’ operazioni di cambio-sesso eseguite, e il governo copre circa la metà dei costi. In effetti, l'Iran, una teocrazia sciita, ha adottato leggi molto progressive quando si tratta di diritti dei transessuali. La legge per i diritti dei transessuali affonda le sue radici nel 1970, quando Maryam Mulkara, una donna transgender si rese disponibile a sottoporsi ad un intervento chirurgico. Iniziò così ad indagare le posizione dell'Islam sulla transessualità. Dopo la rivoluzione del 1979, il nuovo governo ha iniziato campagne di purificazione morale crudeli e Mulkara sentiva che doveva difendere i diritti transessuali. Decise perciò di incontrare Hashemi Rafsanjani, il presidente del parlamento, che promise di riportare la questione a Khomeini. La risposta ricevuta non fu soddisfacente, tuttavia, decise di confrontarsi con il capo supremo. Andò a casa sua, e dopo una breve discussione, l'Imam emise una fatwa affermando che le operazioni di cambiamento di sesso sono ammissibili. Giacché Khomeini aveva suprema autorità nella nuova repubblica, Mulkara, insieme a migliaia di altre persone transgender, acquisirono il diritto legale di cambiare sesso. In questo momento in Iran, il processo di cambiamento di sesso inizia dopo quattro o sei mesi di psicoterapia, accompagnati da test ormonali e cromosomiche. Poi, una commissione speciale di medici e psicologi analizza il caso. Se i medici ritengono il caso valido, rilasciano un certificato che identifica l'individuo come affetto da un “disturbo dell'identità di genere” o “disforia di genere”. Questo è il primo passo sulla strada per un intervento chirurgico che permette al richiedente di iniziare il trattamento ormonale, dà loro diritto di sottoscrivere un'assicurazione e esentarsi dal servizio militare, così come il diritto di nuovi documenti di identità. Ma Afsaneh Najmabadi, un iraniano e professore di Studi sulle Donne, sesso e sessualità presso la Harvard University, ha detto in un articolo su www.Iran.com che si sente "a disagio" quando si leggono queste rappresentazioni "celebrative" sull’ atteggiamento dell'Iran verso il transgender poiché, comunque, sussistono diversi problemi. Soprattutto nella fase iniziale, quando il soggetto mostra le prime tendenze di “disforia di genere”. Inoltre è vero che pregiudizi e forme di aggressione sessista in Iran sono piuttosto frequenti.

Najmabadi, autore di "Le donne con i baffi e gli uomini senza barba: Genere e Ansie sessuali nella Modernità Iraniana" (University of Chicago Press), ha scritto un po’ di tempo fa che la posizione ufficiale dell'Iran sul transgenderismo ha prodotto un discorso religioso-psico-medicalizzante sulla 'innaturale e deviante' sessualità che è profondamente preoccupante a causa della definizione esplicita di transessualità, all'interno di una particolare mappatura della sessualità che rende, allo stesso tempo, l'omosessualità, e più in generale qualsiasi altra non conformità sessuale e di genere, come devianti e criminali. Perciò la strada da fare è ancora molto lunga e rischiosa, nonostante le “aperture” del governo iraniano. Mentre un atteggiamento positivo e progressivo verso un intervento chirurgico per cambiare sesso è liberatorio per persone veramente transgender, può avere un effetto enormemente deleterio quanto deformante nel caso di punizioni, e "normalizzazioni" del desiderio omosessuale. Detto ciò, in Iran, gli studi sul “genere” e sulle “disforie sessuali” sono ancora agli albori e fenomeni come omosessualità e lesbismo non sono ancora adeguatamente conosciuti e scientificamente analizzati, producendo perciò facili allarmismi moralistici e repressione. Nonostante ciò, le autorità sciite in Medioriente (in paesi diversi dall’Iran) sono spesso portatrici di messaggi basati sulla tolleranza religiosa, su una maggiore laicità e su una maggiore apertura ai diritti delle donne e dei gay. Il caso del Libano, della Giordania e della Siria sono clamorosi (le poche nazioni del Medioriente rimaste, in parte, laiche). Sono una fautrice di un Islam “riformatore” e inclusivo, di cui la minoranza sciita in Medioriente ne è rappresentante.

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