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Disabilità e solitudine

Disabilità e solitudine alle soglie del terzo millennio.

Una intervista, da me rilasciata al poeta Domenico Turco, sul tema della disabilità e la solitudine.

Caro Domenico, prima di rispondere alle tue domande, come mi hai detto, mi “lascio andare” alle mie riflessioni sul tema che mi hai proposto, liberamente e, forse, in una maniera troppo ampia, rischiando anche di andare fuori tema. Infine però capirai che tanto fuori tema non sarò andato, se si vogliono ricercare ed esporre alla luce le cause, le radici più nascoste di questo o qualsiasi altro problema, possibilmente per essiccarle intanto individualmente. Come per qualsiasi altro dilemma umano, è necessario scavare, scavare e scavare nell’animo umano per venirne a capo. Dopodiché risponderò nel dettaglio, e spero sinteticamente, alle tue domande.

Disabilità e solitudine: due termini che spesso si trasformano in sinonimi in una società a misura e quasi territorio della “normalità”. Società dove la “diversità”, di qualsiasi genere essa sia (razziale, religiosa, per inclinazione sessuale, disabilità, ecc.), più o meno inconsciamente è percepita dal cosiddetto “normale”, anche simultaneamente, con due opposti sentimenti: paura e presunta superiorità e/o commiserazione. Ciò è un dato di distorta psicologia umana maturata in una società civile che per millenni ha privilegiato l’esteriorità a discapito dell’interiorità, l’avere piuttosto che l’essere, il materialismo a tutto svantaggio della spiritualità, proprio perché il primo è più facile e immediato, e perciò divenuto un’inclinazione per la maggioranza degli individui.

Ogni tanto qualcuno fra milioni riesce a invertire tale attitudine, elevandosi spiritualmente e divenendo esempio positivo per i posteri. Cosicché Gesù, Buddha, Maometto, Osho, ecc., i così tanto “diversi” fra i normali, superando e trascendendo tutte le barriere psicologiche che la società impone, lasciano il segno del loro passaggio terreno su questo pianeta. Questi profeti col loro esempio rendono il nostro globo migliore rispetto a come era prima del loro passaggio; almeno per un po’, fin quando i “normali” che li succedono non distorcono per fini propri tale illuminato esempio.

Riguardo alla “diversità” per disabilità, la società di oggi si è mossa, al solito, lungo il piano verso cui da sempre è più incline: l’esteriorità. Perciò tenta, e nemmeno riuscendoci sempre efficacemente, di abbattere le cosiddette barriere architettoniche (pietoso eufemismo o artificio estetico), lasciando quasi intatte quelle psicologiche. Oggi un disabile può non sentirsi solo se riesce a superare tutte o quasi le barriere architettoniche; ma quando deve “misurarsi” o “competere” socialmente con i “normali” non può farlo alla pari. Piuttosto è costretto a farlo in un contrapposto e spesso simultaneo rapporto di inferiorità e/o pietà ravvisabili negli occhi e in tutti quei segni non verbali del suo interlocutore “normale”. In tal caso penso che un disperato sentimento di solitudine non possa non assalirlo. Credo che la migliore forma di rispetto che si possa riservare a un disabile per farlo sentire realmente integrato e accettato, è trattarlo “normalmente” alla pari.

Difficile trovare una persona e soprattutto un politico che non sia d’accordo nel concedere, giustamente e umanamente, pari opportunità sociali al disabile. Gli si riservano, infatti, anche posti di lavoro e, quando occorre, un congruo sussidio economico; anche se ultimamente, a causa della crescente crisi economica, molti di questi diritti si tenta stoltamente di ridimensionare. Tra il piano verbale delle persone e soprattutto dei politici però, e quello del cuore, del sentimento autentico, sembra esserci un tale abisso!

Perché a livello sociale il disabile e il diverso in genere è condannato all’emarginazione, e quindi alla solitudine?

Caro Domenico, credo che fin quando l’uomo non progredisca spiritualmente e non comprenda e dissolva consapevolmente gli istinti deleteri di prevaricazione e di competizione estrema, spesso inconsci, non sarà in grado di guardare l’altro (specie chi è considerato diverso per vari stupidi motivi) con occhi colmi di autentica solidarietà e rispetto. L’altro sarà visto sempre: o come “inferiore” affettatamente da compassionare, o come pericoloso competitore nella “lotta per la sopravvivenza” nella giungla moderna; e quindi l’uno verrà destinato, più o meno consapevolmente e crudelmente, all’emarginazione, l’altro sarà ferocemente contrastato.

Non sembra una contraddizione che in un paese di tradizione cristiana come l’Italia non siano ancora maturi i tempi per accogliere la persona con disabilità o chi è tacciato di diversità? E per accogliere, intendo includere la persona disabile o disagiata nella vita della comunità.

Il messaggio cristiano di Gesù Cristo è senza dubbio di amore e quindi di accoglienza nella comunità, senza alcuna distinzione. Che siano i primi o gli “ultimi” della scala sociale, non dovrebbe avere importanza. Le religioni organizzate però tendono a distorcere il messaggio originario dei profeti che le hanno ispirate, per fini non sempre immediatamente chiari e definiti, ma che non sembrano sempre e comunque quelli dell’accoglienza e dell’amore universale. La pervicace secolarità di molte religioni fanno pensare tutto ciò.

Perché si è ancora lontani dal riconoscere il diritto ad amare della persona con disabilità? Un diritto che non può per intima natura essere garantito dallo Stato o dalle leggi, ma da un’evoluzione della società mirante ad andare oltre i pregiudizi e la cosiddetta civiltà dell’immagine. Infine, non è solo la persona con disabilità ad essere sola, ma anche la relativa famiglia, costretta in solitudine a fronteggiare un problema così spinoso.

La risposta caro Domenico è già nella seconda parte della tua domanda: ciò che per sua natura non può essere garantito dallo Stato e dalle leggi, può solo essere “permesso” da una società affrancata dal culto dell’immagine e da tutti i pregiudizi da esso derivanti. Certo, anche la famiglia in siffatta società viene lasciata da sola a gestire il problema della disabilità, se non si creano, per cominciare, servizi mirati e infrastrutture sociali e architettoniche idonee e sufficienti. Per quanto riguarda la trasformazione del culto dell’immagine in quella dell’essere, dell’autenticità, dell’interiorità, l’impresa è già molto più ardua, ma se non si comincia…

Secondo te come si potrebbe alleviare il fardello di chi ha in casa una persona con disabilità?

Qui caro Domenico devo essere più prosaico del solito. Riallacciandomi alla risposta precedente, un fardello si può alleviare solo con qualcosa in grado di alleggerirlo; e che cosa se non intanto uno stato assistenziale che conceda congrui sussidi economici affinché la famiglia possa permettersi quanto serve per assistere dignitosamente un disabile, specie se grave? Poi servono pure infrastrutture adeguate, compresi molti centri sportivi per disabili. Sono pochi coloro che riescono a spiccare in qualche sport. Mi pare però che le attuali misure di rigore del governo Monti, e la spending review ad esse associata, non vadano in tale direzione. Per non parlare poi della spesa riservata alla cultura, alla scuola, alla ricerca, davvero risibile per potere avviare un’autentica ed efficace trasformazione culturale e un reale rovesciamento dei valori negativi imperanti.

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