Gli argomenti e le riflessioni attorno ai quali si è discusso la mattina del 4 luglio al primo incontro nazionale sul giornalismo digitale - Dig.it
La necessità di un pensiero transmediale che abbraccia i social network trattandoli non come contenitori di autopromozione ma come strumenti di interazione, creazione di una community e mezzo per avvicinarsi, e avvicinare, un pubblico sempre più consapevole delle propria autonomia rispetto alle istituzioni culturali tradizionali e, di conseguenza, parte attiva nella condivisione e fruizione delle notizie. Questo è solo uno degli aspetti emersi a Dig.it, il primo incontro nazionale tenutosi a Firenze il 4 e 5 luglio sul giornalismo digitale e le nuove figure della filiera editoriale.
All'Auditorium Santa Apollonia si vacillava tra tensione e fiducia accompagnata da un'inguaribile tendenza alla propositività. Se la tensione scuoteva gli animi dei giornalisti tradizionali presenti in sala, ora obbligati alla digitalizzazione, alcuni dei quali pervasi da un senso di spaesamento verso il web, la fiducia invece sorreggeva chi è riuscito a destreggiarsi nella rete e fare del digitale l'ambiente nel quale vivere. L'incontro tra tensione e fiducia ha generato una miscela di idee, spunti di riflessione, testimonianze e dibattiti che hanno avuto il merito non tanto di fare luce sull'evoluzione del web [argomento ormai noto che rischia, se rimestato nuovamente, di scadere nella retorica e banalizzazione] quanto di offrire nuovi strumenti ai giornalisti digitali [e futuri tali] facendo leva sulle potenzialità della rete, le nuove dinamiche nel contesto italiano relativamente all'open journalism e al giornalismo partecipativo, i finanziamenti, gli investimenti e il valore della pubblicità sul web.
Riprendendo quanto detto all'inizio, il pensiero transmediale si sposa con una cultura aperta ed emancipata verso i social network definiti da Massimo Mantellini come "ambienti nei quali vengono parcellizzate le notizie. Su Twitter e Facebook c'è molto giornalismo ma, a questo punto, la parola in sé deve essere estesa" non solo semanticamente [aggiungo]. La rete ha imposto delle regole discutibili sia da parte dei giornalisti sia da parte di reporter: l'innamoramento per la velocità, per la convinzione, ormai dilagante, che se arrivo prima ho più visibilità porta, inevitabilmente, alla decostruzione e profanazione del valore e della professionalità del lavoro giornalistico. In questo contesto, isterico per certi aspetti ma creativo e iper-stimolante per altri, "la figura del giornalista tradizionale andrà scomparendo oppure andrà a definire qualcosa d'altro" ha asserito Carlo Felice Dalla Pasqua [giornalista e editor de Gazzettino.it]. Alle regole imposte dal web al panorama giornalistico attuale si deve rispondere [e questo concetto è stato ribadito da tutti i relatori del panel introduttivo e del primo panel] con la cura dello stile contenutistico, la citazione delle fonti e l'apertura verso un pubblico che, è bene ribadirlo, è sempre più attivo e partecipativo.
Sul concetto di partecipazione [a cui è stato affiancato il concetto di open journalism] si è aperto il primo panel della mattina del 4 luglio coordinato da Antonio Rossano [giornalista, esperto di comunicazione e nuovi media, cofondatore e presidente dell’Associazione Pulitzer]. Rossano esordisce ricordando il lavoro, accurato, scrupoloso e lungimirante, di Alan Rusbridger [editor The Guardian] che ha creduto, e quindi costruito, "un'eco-struttura aperta alle informazioni, una struttura basata sulla trasparenza, in grado di coinvolge attivamente i lettori". Alan Rusbridger presentando, a marzo del 2012, il decalogo dell'open journalism ha dimostrato la forza e le potenzialità della rete applicate al giornalismo odierno. Accanto a queste caratteristiche, ne sta nascendo un'altra ovvero l'aspetto democratico delle infrastrutture partecipative. Un'arma a doppio taglio perché cela il pensiero errato che chiunque possa fare informazione: Mario Tedeschini Lalli [vice direttore Innovazione e Sviluppo Gruppo Editoriale L’Espresso] ha ribadito quindi il concetto della cura stilistica e contenutistica delle informazioni nonché la citazione delle fonti. Queste caratteristiche contraddistinguono il giornalista digitale, professionista o meno, precario, blogger e quant'altro da qualunquisti generici, vulnerabili e suscettibili alle sole leggi imposte dalla rete.
Al primo panel del 4 luglio è intervenuta anche Yara Nardi [Gruppo Fotoreporter romani] che proprio a proposito delle piattaforme di content sharing e della possibilità di trasformare chiunque in fruitore di notizie, ha letto parte della lettera inviata al direttore di Repubblica, Ezio Mauro, in seguito all'iniziativa Reporter [reclutamento di videomaker] da parte del quotidiano stesso.
Il problema, direttore, è proprio "la svista", la dimenticanza, il non avere pensato che quello che voi proponete come qualcosa a metà tra il gioco e il talent show, c'è chi lo fa ogni giorno, a volte da molto prima dell'alba fino a molto dopo il tramonto, e che non lo fa per essere giudicato da un big (per continuare con il linguaggio dei talent) e nemmeno per vedere il proprio nome su un giornale, ma per pagare un affitto, per pagarsi il cibo… insomma per vivere e, soprattutto… per informare. Quella svista è grave ed importante, nel senso che segnala perfettamente la considerazione che spesso sentiamo di avere. Quel "siamo tutti reporter" ci fa sentire piccoli, toglie sostanza a ciò che facciamo ogni giorno e ingrassa, nella nostra mente, quel tarlo che vi abita da tempo, il dubbio, cioè, se sia ancora il caso di chiamare vera informazione quella che ci viene chiesta o è semplicemente un contenuto per riempire gli spazi, sempre più ampi, che la tecnologia offre ai giornali.
Lo stralcio di lettera letto da Yara Nardi non vuole scagliarsi contro il citizen journalism ma invitare alla riflessione sul valore dell'informazione e sulle condizioni di lavoro in cui siamo (e qui non a caso uso un plurale) costretti a lavorare: giornalisti, reporter, blogger, articolisti, pubblicisti ma anche scrittori. Inoltre la lettera ha lo scopo di differenziare il citizen journalism dall'utilizzo, con metodologie subdole e bieche, di risorse per tamponare carenze interne redazionali. Il citizen journalism, per essere definito tale, segue un codice deontologico al quale non ci si può sottrarre affinché lo si voglia praticare.
Lo scenario che ruota attorno al giornalismo digitale è il presente con cui fare i conti se si vuole intraprendere questa professione, rispettando e, al tempo stesso, conoscendo e sfruttando gli strumenti che la rete mette a disposizione, magari migliorandoli e apportando innovazioni, consapevoli che non ci sono limitazioni alle potenzialità che il web presenta. Le perplessità sono ancora molte, gli interrogativi non si esauriscono eppure, uscendo dall'Auditorium, investita dal calore di inizio luglio, mi è sembrato di avere più consapevolezza di me stessa e di quello che vorrei fare.