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Decreto Semplificazioni: l’eco del silenzio assenso

Kafka in Italia: proposta una "semplificazione" che richiede che la pubblica amministrazione certifichi il proprio silenzio assenso

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

se Ella volesse semplificare una procedura, come agirebbe? Senza alcun dubbio disegnando l’iter, contando il numero dei passaggi e cercando di ridurre il loro numero.

Cosa fa il Legislatore italiano nel tentativo di “semplificare” il silenzio-assenso? Ovviamente l’esatto opposto.

Lo schema di decreto semplificazioni, senza minimamente occuparsi di come accelerare i tempi e sanzionare davvero chi si tira indietro, compie – ma non è la prima volta che nell’ordinamento giuridico si assiste a riforme che vanno nella direzione opposta a quella annunciata – il miracolo di “semplificare”, ottenendo l’effetto di complicare maggiormente.

Vediamo come funziona, oggi, il silenzio assenso, regolato dall’articolo 20 della legge 241/1990, confrontando l’attuale iter con quello immaginato dall’ipotesi di riforma.

Oggi, nel caso in cui un procedimento amministrativo sia avviato con una specifica domanda (e non riguardi l’avvio di attività produttive, regolato dall’articolo 19 della legge 241/1990), funziona così:

  1. l’ente riceve la domanda del cittadino;
  2. decorrono i termini per decidere (ai sensi della legge 241/1990, 30, 90 o 180 giorni a seconda del tipo di procedura; ma disposizioni speciali possono fissare termini diversi);
  3. scatta il silenzio assenso, che determina la formazione tacita del provvedimento amministrativo di accoglimento.
Silenzio assenso, garantismo pro cittadino

Il silenzio assenso, dunque, è una misura tipicamente volta a garantire che colui che presenta un’istanza alla Pubblica Amministrazione ottenga comunque una risposta, per giunta favorevole, qualora gli uffici restino inerti e non adottino un provvedimento espresso nei termini.

Contestualmente, il silenzio assenso è anche un rimedio ad un illegittimo modo di agire. Infatti, i funzionari ed i dirigenti hanno il dovere di pronunciarsi sempre su ogni istanza. Lo prevede espressamente l’articolo 2, comma 1, sempre della legge 241/1990:

Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un provvedimento espresso.

Qual è il problema dell’attuale sistema di formazione del provvedimento tacito? Semplice, Titolare: che il provvedimento è, per l’appunto implicito. Di conseguenza non è scritto e non deve esserlo.

Probatio diabolica, aka Comma 22

Se, però, il provvedimento formatosi tacitamente a seguito del silenzio assenso debba essere prodotto ad un’altra PA o anche ad un privato, si rischia di entrare nel tunnel senza uscita della probatio diabolica: è altamente probabile, infatti, che quell’altra PA o quel privato chiedano prova documentale della formazione del silenzio assenso, anche per una certa diffidenza dalla tendenza oggettivamente reale dei cittadini a non essere sempre troppo sinceri nei loro rapporti con PA e terzi.

Da qui la preoccupazione di intervenire sulla disciplina del silenzio-assenso, “semplificandola” e rinforzandola. Solo che le modalità immaginate dal decreto sono oltre la soglia del paradossale.

Leggiamo il testo della bozza del 21 maggio, tesa ad introdurre nell’articolo 20 della legge 241/1990 il seguente nuovo comma 2-bis:

Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale a provvedimento di accoglimento ai sensi del comma 1, fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso, l’amministrazione è tenuta, su richiesta del privato, a rilasciare in via telematica, un’attestazione dell’intervenuto accoglimento della domanda ai sensi del presente articolo. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, l’attestazione è sostituita da una dichiarazione del privato ai sensi dell’art. 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

Mettiamo in fila la sequenza, come abbiamo fatto prima, e scopriamo l’assurdo. Il nuovo sistema “semplificato” funzionerà così:

  1. ricezione dell’istanza;
  2. decorso dei tempi per decidere;
  3. formazione del silenzio assenso e consolidamento dell’effetto implicito di accoglimento della domanda;
  4. nuova istanza del privato per ottenere l’attestazione dell’avvenuto accoglimento implicito della domanda dovuto a silenzio assenso;
  5. decorso di 10 giorni entro i quali la PA dovrebbe emettere l’attestazione di cui sopra;
  6. sostituzione dell’eventuale mancata emissione dell’attestazione con una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.
Semplificare raddoppiando

Miracolosamente, il procedimento “semplificato” raddoppia le fasi, che da tre passano a sei. Un colpo di genio, non crede, Titolare?

Lasciano davvero interdetti almeno queste evidenze:

  1. il legislatore stabilisce che l’accoglimento implicito della domanda, dovuto al silenzio-assenso, lasci fermi gli effetti e cioè la produzione del beneficio richiesto;
  2. ma, lo stesso legislatore dà per scontato che la formazione implicita del provvedimento non sia sufficiente e che occorra comunque un “pezzo di carta”;
  3. pertanto, si pretende che il cittadino ottenga il “pezzo di carta”, cioè l’attestazione che la domanda è stata accolta per effetto del silenzio assenso, da quella stessa amministrazione responsabile di non essersi pronunciata sulla domanda iniziale, tanto da aver causato il decorso del termine e la formazione del silenzio assenso;
  4. ma, nel pretendere quanto sopra, il legislatore è cosciente che quella PA rimasta silente la prima volta, molto probabilmente resterà silente anche la seconda;
  5. quindi, anche la certificazione dell’avvenuto silenzio assenso non produce nulla, se non l’idea che la formazione del silenzio assenso possa essere comprovata dalla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà.

Ora, titolare, se appunto la soluzione immaginata è questa, non vi sarebbe bisogno alcuno di intervenire normativamente sulla disciplina del silenzio assenso e caricare i cittadini dell’onere di chiedere l’attestazione a comprova della sua formazione.

La soluzione esiste già

Infatti, è perfettamente possibile anche nell’attuale regime al cittadino di produrre appunto la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, che comprovi agli occhi delle PA e dei privati la formazione del silenzio assenso.

Ai sensi delle varie norme che regolano le autocertificazioni contenute nel DPR 445/2000, le PA che ricevono tali dichiarazioni sostitutive sono tenute ad accettarle e, conseguentemente, a mettere in atto i provvedimenti di propria competenza e a verificare, dopo l’emissione del proprio provvedimento, la veridicità della dichiarazione rivolgendosi alla PA che ha lasciato formare il silenzio assenso, per chiedere ad essa conferma di tale circostanza.

Il problema, Titolare, è che le PA vìolano diffusamente e costantemente le previsioni del dPR 445/2000 e, appunto, pretendono che sia il cittadino a produrre il “pezzo di carta”, invece di essere loro a verificare con le altre PA se quanto dichiari il cittadino sia vero o meno.

Pertanto, l’idea della riforma sostanzialmente non vale nulla. Infatti, il problema da risolvere non consiste nella formazione di “un pezzo di carta”, che in ultima analisi è la dichiarazione del cittadino, ma nella correttezza dell’azione amministrativa.

Nonostante, infatti, le norme richiamate sopra siano molto chiare, sono sempre tantissimi i casi nei quali le PA fermano le istruttorie, non utilizzando come strumenti di formazione della decisione le dichiarazioni dei cittadini.

Anzi, molte volte nel passato il silenzio assenso ha determinato situazioni kafkiane. Infatti, la PA prima lasciava decorrere il termine e formarsi il provvedimento implicito di accoglimento dell’istanza a seguito del silenzio assenso; ma, poi, con ritardo emettevano il provvedimento espresso, magari di segno contrario, prendendo totalmente alla sprovvista il cittadino.

A questo ha inteso porre rimedio il decreto “semplificazioni” (ne abbiamo tanti di decreti, ma poche di semplificazioni…) del Governo Conte, il quale ha stabilito che i provvedimenti adottati dopo la scadenza dei termini per la formazione del silenzio assenso sono inefficaci, per fornire qualche certezza del diritto in più.

Come semplificare davvero

Ma, allora, Titolare, in cosa dovrebbe consistere la vera semplificazione? Come sempre, basterebbe attuare le norme che già esistono e quindi, occorrerebbe:

  1. applicare l’articolo 2, comma 9, della legge 241/1990: “La mancata o tardiva emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”. È necessario far capire alle amministrazioni che non si possono gestire i procedimenti facendo regolarmente scadere i termini: il silenzio assenso, quando scatta, dovrebbe sempre far attivare simmetricamente azioni di responsabilità contro chi lo cagiona;
  2. introdurre meccanismi di controllo esterno, per verificare che gli enti si attivino contro chi non chiuda nei termini i procedimenti;
  3. consentire ai cittadini di ottenere dalle PA e dai privati (a loro volta obbligati dal decreto “semplificazioni del Governo Conte ad accettare le dichiarazioni sostitutive) i provvedimenti ed i benefici per i quali sia necessario, preventivamente, il provvedimento formatosi tacitamente appunto sulla base di una semplice dichiarazione, prevedendo un organismo terzo al quale rivolgersi nel caso dell’ingiustificata richiesta di ottenere un documento qualsiasi che attesti la formazione implicita del provvedimento. Un organismo che sostanzialmente commissari la PA inadempiente e adotti provvedimenti sanzionatori nei confronti dei funzionari che impediscano nei fatti la produzione degli effetti del silenzio assenso.

Allungare le fasi procedurali, imporre al cittadino di presentare nuove istanze per ottenere la certificazione che il silenzio si sia formato e condizionare a questo l’autocertificazione non è semplificare: è la resa definitiva alla più complessa, bizantina, burocratica e contorta burocrazia, prodotta, ancora una volta, non dai burocrati, ma da Governo e Parlamento.


Non voglio ripetermi ma, al netto degli spunti umoristici (un umorismo rigorosamente nero, come il futuro che ci attende), credo che questi episodi siano solo l’ennesima conferma del male italiano: la profonda, intrattabile diffidenza reciproca in cui è immerso il rapporto stato-cittadino. È tutta una corsa e rincorsa a fregarsi ed evitare di essere fregati, con ricorrenti tentativi di “semplificazione” regolarmente abortiti o che aggiungono ulteriori circoli viziosi. Quando in un sistema sociale manca la fiducia, la prognosi resta infausta. (MS)

Questo articolo è stato pubblicato qui

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