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Dal Vietnam a oggi, mezzo secolo di rivoluzioni militari

La guerra del Vietnam rappresentò il prodomo alla grande rivoluzione degli affari militari conosciutasi nel mondo della rivoluzione neoliberista; dalla teorizzazione della air-land battle dei primi Anni Ottanta all’escalation di interventi militari occidentali compresi tra la prima guerra contro l’Iraq e le moderne crisi mediorientali, per arrivare al caos in Ucraina, il mondo bellico è cambiato radicalmente.

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La guerra del Vietnam vide l’intervento USA a partire dal 1964; gli eserciti e l’aviazione statunitense strutturarono una campagna di bombardamenti del Vietnam del Nord, del Laos e della Cambogia per distruggere la guerriglia Vietcong interna al Vietnam del Sud e rifornita dal “sentiero di Ho Chi Min”. L’offensiva del Tet (1968) portò la guerra ai confini di Saigon; il conflitto si fece sempre più costoso e oneroso per gli USA, che si ritirarono nel 1975, poco prima dell’occupazione di Saigon da parte del Vietnam del Nord. Senza aver perso nessuna battaglia campale e con un rapporto di perdite di 58.000 contro oltre 940.000, gli USA persero la guerra in maniera disastrosa: il Vietnam del Nord sopportò le colossali perdite subite, mentre gli Stati Uniti persero il conflitto “in casa” a causa dei costi stellari sobbarcati, che costrinsero il Tesoro ad emettere una massa enorme di denaro e portarono sul lungo termine alla fine della convertibilità tra dollari ed oro, e alla diffusione del movimento contro la guerra sul territorio americano. La reintroduzione della coscrizione obbligatoria, in particolare, causò una gravissima tensione sociale, a scontri nelle università e nelle strade e a una generale contestazione contro l’amministrazione di Lyndon Johnson, principale responsabile dell’escalation del conflitto.

Dopo il 1975, gli USA esitarono a lungo circa l’invio di militari all’estero, subendo in profondità la “sindrome del Vietnam”. La guerra-pantano fu sperimentata anche dall’URSS nel suo rovinoso intervento in Afghanistan; la guerriglia, dopo la battaglia di Dien Bien Phu del 1954, aveva acquisita una sua autonomia strategica, sancita dal trionfo Vietcong nel momento in cui fenomeni di guerriglia dilagavano in tutto il Sud del pianeta. Gli Stati Uniti, che avevano pensato sino ad allora di sviluppare la loro strategia militare sulla combinazione tra ricchezza di materie prime, insularità, fattore tempo e supremazia materiale sul campo di battaglia, videro l’enorme apparato militare-industriale sconfitto in maniera netta.

Gli USA ricavarono dal Vietnam tre importante lezioni: innanzitutto, nel 1973 era stata abolita la leva obbligatoria e era stato avviato il percorso verso una maggiore professionalizzazione dell’esercito; in secondo luogo, si incentivò su altri piani lo sviluppo militare. Gli USA, da un lato, riscoprirono il mercenariato, pratica in genere da loro avversata a causa dell’irreggimentamento massiccio di mercenari da parte inglese durante la Guerra d’Indipendenza; dai primi Anni Ottanta gli Stati Uniti si affidarono a un numero sempre maggiore di mercenari inquadrandoli dapprima nell’apparato logistico e, in seguito, nel fiancheggiamento al combattimento. Sul piano dell’armamento, inoltre gli USA conobbero profondi cambiamenti. I sistemi d’arma furono evoluti: i fucili mitragliatori adottati dalla truppa nel Vietnam erano oltremodo costosi e fu sviluppato il fucile con mira “ad area”, esplodente una rosa di proiettili sotto forma di mini-raffiche da tre proiettili alla volta minimizzando il rinculo; i sistemi di mira furono parimenti perfezionati, portando ad esempio all’introduzione dei proiettili a ricerca calore. L’innovazione rese le armi estremamente più costose, causando un ulteriore incentivo alla professionalizzazione del corpo militare. La specializzazione dell’esercito si accompagnò alla maggiore mobilità delle unità, meno strutturate in corpi rigidi rispetto al passato, che rendeva necessario l’addestramento di un nuovo profilo di ufficiale, quasi di tipo “manageriale”.

La terza grande innovazione riguardò la dottrina miliare generale: gli USA compresero che erano le resistenze interne al combattimento a rappresentare la principale causa di resistenza alle loro strategie, constatarono i costi crescenti dell’apparato militare e capirono di avere il “fiato corto” rispetto al passato. Le forze armate statunitensi svilupparono un loro tipo di blitzkrieg, incorporato nella nuova dottrina militare della battaglia aero-terrestre. Già in passato le forze armate americane avevano sempre fatto conto sull’aeronautica come punta di lancia delle loro operazioni; nella air-land battle si teorizzava una guerra-lampo iniziata dagli aerei, che avrebbero dovuto colpire sino a una profondità di “72 ore-carri” attraverso bombardamenti destinati a disarticolare la logistica avversaria distruggendo le principali infrastrutture e gettando in confusione le unità nemiche, destinate poi a venire attaccate dalle truppe di terra. La guerra sarebbe dovuta essere necessariamente breve: gli attaccanti avrebbero dovuto conoscere un divario di perdite umane consistente rispetto ai difensori attraverso nuovi, devastanti armamenti, dalle bombe a penetrazione ai droni.

 Si discusse addirittura l’utilizzo di bombe atomiche “tattiche”. La nuova dottrina militare resse la politica estera e interventista americana dalla fine degli Anni Ottanta sino a tempi recenti, dato che nella guerra di Libia del 2011 si conobbero applicazioni parziali della air-land battle. La prima Guerra del Golfo si concluse in due mesi, la seconda durò poco più di un mese e l’Afghanistan fu completamente occupato in quarantacinque giorni: sul terreno, gli USA riuscirono ad applicare concretamente il principio della battaglia aero-terrestre. Ciò che non fu messo in conto, per quanto concerneva le guerre del 2001 e del 2003, fu l’insorgere di nuovi fenomeni di guerriglia. La air-land battle diede splendidi risultati contro eserciti regolari meno avanzati di quello statunitense, ma ingenerò una falsa sicurezza circa il ruolo della superiorità tecnologica nell’assicurare una vittoria totale: la nuova guerriglia si caratterizzò come fenomeno molto diverso rispetto al passato, che nel paesaggio desertico dell’Afghanistan e dell’Iraq rese obsoleti i tradizionali, brutali mezzi di controguerriglia adottati in Vietnam. Se la guerriglia Vietcong fu essenzialmente rurale, in Iraq e Afghanistan la guerriglia urbana supportata dallo sdoganamento del terrorismo prese il sopravvento. E la fuga di Kabul del 2021 mostra che nemmeno vent’anni di presenza boots on the ground possono essere risolutivi in assenza di una vera strategia.

I guerriglieri iracheni dimostrarono una grande elasticità: tra i più grandi strateghi militari dell’epoca contemporanea il comandante di Al Qaeda in Iraq, Al Zarqawi, merita un posto di rilievo. Egli costruì un apparato “anfibio” capace di passare rapidamente dall’offensiva urbana all’attacco in campo aperto, che Al Qaeda in Iraq dimostrò di padroneggiare dopo la sua trasformazione nel moderno, sedicente Stato Islamico. Nel 2005-2006, solo l’offensiva “parallela” del generale Petraeus fermò la guerriglia di Al Qaeda in Iraq: il comandante militare americano attaccò a suon di dollari, corrompendo una serie di tribù irachene per fermare Al Qaeda in Iraq, e contemporaneamente mirò a eliminare direttamente lo stesso Al Zarqawi, ucciso nel giugno 2006.

La guerra del Kosovo fu il primo conflitto “douhetista”, combattuta e vinta esclusivamente con mezzi aerei. La NATO sconfisse la Serbia con la perdita di un solo aereo; sul campo, a fianco dei kosovari erano presenti ufficiali libici, che svilupparono al tempo stesso strategie di risposta alla guerra aerea occidentale che seppero essere applicate durante l’aggressione occidentale alla Libia di Gheddafi nel 2011. I libici avevano, ad esempio, deciso di non concentrare truppe e mezzi in singole caserme, di mascherare i mezzi di trasporto e i blindati assieme ai veicoli civili; raggruppamenti rapidi e dispersione celere garantivano una mobilità alle truppe che andava in controtendenza rispetto ai tradizionali obiettivi delle forze aeree NATO. Una commistione di guerra regolare e forme di combattimento non ortodosse, poi applicata anche dall’ISIS negli ultimi anni, portò la NATO all’impossibilità di vincere autonomamente il conflitto con la sola arma aerea.

L’esperienza della guerra contro Milosevic del 1999 portò alla maturazione del pensiero della “scuola di Belgrado”, ovvero a una teoria basata sulla “rivoluzione di velluto”. Tale termine, coniato per definire il processo di caduta del regime comunista cecoslovacco, passò ad indicare una forma di “guerra incruenta” basata su forme di manifestazione e rivoluzioni interne congegnate per anestetizzare attacchi da parte delle forze di sicurezza dei paesi nemici. Le manifestazioni cecoslovacche, ad esempio, schieravano in prima linea donne e bambini; al contempo, sabotaggi comunicativi e informativi fiaccarono le capacità di reazione del regime cecoslovacco. Tale tattica darà ottimi risultati nelle manifestazioni tunisine ed egiziane che caratterizzarono le “Primavere Arabe” e in Ucraina.

L’ipertecnologizzazione del conflitto ha implementato il contatto tra mondo militare e mondo economico. Già nel 1961 il presidente statunitense uscente Eisenhower ammonì circa i pericoli connessi alla presa di potere del “complesso militare-industriale”; quest’ultimo, nell’ultimo mezzo secolo, non ha fatto altro che crescere, conoscendo una vera e propria esplosione tra gli Anni Ottanta e Novanta a seguito della grande rivoluzione degli affari militari teorizzata da Caspar Weinberger, Segretario alla Difesa dell’amministrazione Reagan favorevole alla privatizzazione di parte dei servizi militari. Già nella Guerra del Golfo, il contingente mercenario era secondo solo al corpo regolare dell’esercito americano per numerosità sul campo e negli anni successivi iniziò la costituzione di compagnie militari private, molto spesso di proprietà di alti funzionari della Difesa statunitense in una situazione di evidente conflitto d’interessi. Inoltre, Weinberger riassunse la teoria dell’air-land battle, sostenne il primato della guerra aerea e delineò il profilo dell’ufficiale-manager dotato di competenze organizzative imprenditoriali. L’esercito assumeva la conformazione di una grande azienda, destinataria di grandi investimenti: fino al 2008, i soli Stati Uniti coprivano la metà delle spese militari mondiali. L’aumento della spesa dell’apparato militare statunitense si accompagnò, sulla base di una legge tipica di molti macrorganismi, a una crescita esponenziale della corruzione ad esso interna. Uno degli elementi di maggiore vulnerabilità della grande macchina militare americana è oggigiorno rappresentata dalla dilagante corruzione.

La rivoluzione degli affari militari ha aperto la porta a conseguenze pervasive sulla società. L’interazione tra mondo manageriale-economico e mondo militare è confermata dallo stesso lessico utilizzato nel primo ambito, altamente ricalcato da quello militare: esistono studi sulla cultura strategica del management. Come scrisse Beaufre, la strategia ha assunto una dimensione multilivello; sul piano economico, questo ha portato alla riqualificazione della figura del manager di cui si era parlato in precedenza; dal manager “primo dipendente” si è passati al “primo padrone” mano a mano che la rivoluzione degli affari militari e la rivoluzione finanziaria portò a una maggiore compenetrazione tra sfere decisamente diverse tra loro. Numerosi ex comandanti dei servizi informativi, delle forze di polizia o degli enti militari, in diversi paesi occidentali, Italia compresa, si sono in seguito riciclati come consiglieri politici o dirigenti di grandi aziende degli armamenti. Il principale gruppo di potere del blocco sociale dominante è stato costituito grazie al matrimonio “tra la spada e la moneta”, tra il mondo economico e quello finanziario. La preoccupazione di Eisenhower, a mezzo secolo di distanza, risulta pienamente confermata. 

L’esercizio della forza da parte delle potenze occidentali ha portato gli avversari degli Stati Uniti e dei loro alleati a sviluppare strategie di risposta. La Cina, ad esempio, ha sfruttato la pervasività del suo servizio segreto e le capacità di reverse engeneering del suo sistema tecnologico per sviluppare una risposta al carro armato statunitense M1 Abrams, giudicato il blindato più performante e dominante dei nostri tempi. Il 9 maggio 2015, durante la tradizionale parata sulla Piazza Rossa, la Russia ha presentato il suo personale veicolo corazzato, frutto di un’implementazione del progetto cinese. 

Questi comportamenti erano già emersi negli Anni Novanta, quando due ufficiali dello Stato Maggiore cinese scrissero un libro intitolato Guerra senza limiti, in cui veniva fuso il pensiero cinese tradizionale ai suoi sviluppi moderni e all’osservazione delle tendenze belliche dominanti degli ultimi decenni nella teorizzazione di dieci principi fondativi della “guerra asimmetrica”. Guerra senza limiti disegnava uno scenario in cui la guerra asimmetrica tendeva a colpire gradualmente a maggiore distanza dal centro del nemico, alla stessa maniera della guerriglia maoista degli Anni Trenta e Quaranta (“la campagna che assedia la città”). Ulteriore caposaldo della guerra asimmetrica è la sua caratterizzazione multilivello: dalla destabilizzazione politica al conflitto economico, la “guerra totale” si trasforma in “guerra totalizzante” mano a mano che ogni dimensione viene appiattita in funzione del conflitto. Molte forme di attacco devono necessariamente essere coperte per evitare rappresaglie da parte del nemico: la filosofia del nuovo conflitto è quella della “guerra coperta”. La più sofisticata delle forme attraverso cui essa può manifestarsi è la “guerra catalitica”: un attacco simulato, false flag, per scatenare intenzionalmente un conflitto tra due contendenti. Negli Anni Settanta, ad esempio, un timore molto diffuso era che i cinesi simulassero un attacco nucleare agli USA o all’URSS per scatenare la guerra aperta tra le due superpotenze.

La guerra ha cominciato a sciogliersi come dinamica unica per cominciare a incarnarsi in forme altamente differenziate. Si parla di “guerre commerciali”, “guerre cibernetiche”, tutto pare essere oggigiorno “guerra ibrida”., si è creato un climax tra le forme più basilari e quelle più strutturate di aggressione. Un boicottaggio può essere dichiarato o meno, strategie di dumping possono essere condotte per destabilizzare le imprese di un paese rivale, mentre l’embargo rappresenta una forma di assedio economico diretta, ed è anch’esso dichiarabile esplicitamente o praticato de facto. La stessa “guerra cognitiva” ha conosciuto un’incentivazione sempre maggiore, strutturandosi ora come fenomeno aperto incruento ora come battaglia a tutto campo. L’Ucraina, prima guerra senza limiti della storia, nel 2022 sta dando piena dimostrazione dell’assenza di canoni formali per definire il confine tra guerra e pace nell’era globalizzata.
Fondamentale nel recente cambio di paradigma della guerra degli ultimi anni è stata la comparsa del conflitto coperto, che Kant nella sua Proposta per la pace perpetua aveva marchiato come gravissime minacce alla stabilità dei rapporti tra Stati e popoli. Assassini politici, diffusione di malattie e mosse simili, praticate diffusamente già a fine Settecento, erano bollati come mosse immorali e pericolose. Rovesciando quanto scritto da Kant si ottiene il prototipo perfetto del conflitto moderno, nel quale si è superato il confine tra la guerra e la pace. La guerra non è mai dichiarata direttamente, le aggressioni si compiono a più riprese in forma nascosta, tante volte con una sorta di “complicità” dell’aggredito. Lo stato di guerra perpetua può coinvolgere in diversi casi anche paesi apparentemente alleati. Lo schema liquido del conflitto si accompagna, per sua stessa necessità, alla geometria variabile delle alleanze. E dunque nella tendenza del mondo a un’entropia sistemica.

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