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Dal Nagorno Karabakh all’Armenia, il viaggio dell’addio

In coda a recuperare benzina e viaggiare verso ovest, riparando nella madrepatria, rinunciando all’accordo che la stessa Armenia ha stipulato con l’Azerbaijan dopo il lampo armato dello scorso 19 settembre. 

In coda alcune famiglie armene del Nagorno sono finite in un rogo scoppiato presso un magazzino dove si distribuiva carburante: venti vittime, centinaia di feriti. Le autorità azere dell’area, da loro chiamata Khankendi, hanno disposto il ricovero in ospedale degli ustionati, ma la maggior parte ha rifiutato. Non si fidano, davanti a una realtà difficile che per nove mesi ha toccato il fondo col blocco di cibo e medicinali da parte dei soldati di Baku, cui la politica di Erevan ha risposto con l’accusa d’una pulizia etnica nella regione. Di fatto la pulizia la sta creando l’abbandono del Nagorno compiuta da profughi volontari: 4.000 sono già entrati in Armenia, altri 14.000 sono in fila alla frontiera. Partono perché non vedono futuro nell’autonomia regionale, dopo che per trent’anni hanno vissuto nell’illusione d’un proprio Stato, la Repubblica dell’Artsakh, nata e congelata dai conflitti del 1992 e del 2020. L’Armenia continua a lamentarsi sulla sorte dei fratelli del Nagorno, ma nessuno se ne prende cura. Certamente non l’antico protettore Putin né il recente amico Biden, impegnati a scontrarsi sul fronte ucraino. La restante diplomazia - franco-tedesca - che tiene i contatti coi contendenti, li incontra oggi a Bruxelles per preparare un ulteriore colloquio da tenere a Granada. In realtà i contatti fra governi armeno e azero non mancano, i due fronti hanno anche deciso il controllo azero sulla regione, dove la cittadinanza armena può vivere e godere dei propri diritti, a cominciare dalla sicurezza. Eppure i rappresentanti karabaki osteggiano tale soluzione, buona parte della popolazione nutre timori e un 10% sta prendendo la via dell’esilio forzato.

Chi si è mosso nella vetrina internazionale è il solito Erdoğan, che in verità fino a questo momento aveva tenuto un basso profilo. Ha incontrato nell’exclave di Naxçıvan l’omologo azero Aliyev per discutere di rapporti bilaterali e delle questioni regionali ovviamente legate all’ultima crisi del Nagorno. Durante la visita nella regione, Erdoğan ha inaugurato un nuovo gasdotto, la cui costruzione era stata concordata nel 2020 da Turchia e Azerbaijan nell'ambito d’un memorandum d'intesa. Il gasdotto lungo 85 chilometri si estenderà dalla turca Iğdır all’azera Sederek e avrà una capacità annua di 500 milioni di metri cubi. Il progetto è uno sforzo congiunto della società di commercio di petrolio greggio e gas naturale BOTAŞ e della compagnia petrolifera statale SOCAR. I due leader hanno anche discusso l'apertura del corridoio Zangezur verso l'Azerbaijan, che mira a collegare Naxçıvan con la terraferma, attraverso l’utilizzo delle reti ferroviarie e autostradali turche. Il governo di Baku ha pianificato di mettere in funzione la sezione azera del corridoio entro l’anno prossimo. Da parte sua l'Armenia s’è impegnata a garantire la sicurezza dei collegamenti di trasporto fra le regioni occidentali dell'Azerbaijan e Naxçıvan così da facilitare la circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Erevan resta, però, contraria al lancio del corridoio e non ha preso misure concrete per ripristinare il tratto di passaggio verso l’exclave che le compete. Di fatto, comunque, il realismo politico si pone davanti a una ricerca di comprensione e collaborazione, infiammare il Caucaso non interessa a nessuno. E probabilmente anche chi si sta misurando con le armi sul suolo ucraino, vuol tenere l’area di petrolio e gas del Caspio fuori da confronti armati, e far scorrere gli idrocarburi per i rifornimenti invernali. In Europa e altrove. 

Enrico Campofreda

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