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Da Charlie a Foggia, la coscienza sporca della Fortezza Europa (e lo strano senso di solidarietà degli italiani)

 Credits: dentrolaclasse.blogspot.com

Credits: dentrolaclasse.blogspot.com

Qual è la dinamica che spinge alla mobilitazione? O, per metterla in altri termini: servono i morti per scendere in piazza? E quali morti? L'attentato a Charlie Hebdo, il giornale satirico parigino al centro dell'agenda dell'indignazione europea in questi giorni, non è solo un caso di libertà d'espressione o meno. Charlie Hebdo è anche la bidonville di Foggia, il ghetto di Rignano Garganico di cui quella stessa Italia che scende in piazza al grido di #JesuisCharlie non parla e, peggio ancora, non si interessa. Così come le istituzioni.

Gli attentati a Charlie Hebdo sono anche il rapporto tra centro e periferia, sono l'interesse che il governo centrale nutre verso la periferia urbanistico-economica: Parigi con le sue banlieue – i fratelli Kouachi provenivano dal 19mo arrondissement - ma anche il governo italiano con lo sfruttamento dei migranti nelle campagne da parte del capo bianco, o la periferia della Fortezza Europa, con i suoi accordi internazionali col Marocco, la Libia o l'Eritrea per bloccare i migranti in qualche carcere lontano dall'"indignazione organizzata", raccontata agli italiani da quel poliziotto intervistato da Francesca Nava lungo il confine sud di Melilla (enclave spagnola in Marocco) per Piazza Pulita” su La7.

Siamo la parte del mondo che consideriamo civilizzata, a cui è stato dato il compito – non si sa da chi né perché – di esportare democrazia e libertà in giro per il mondo, valori di cui, a volerci guardar bene, siamo tutt'altro che forniti.

Nessuno in questi giorni sembra essersi interrogato sul perché dell'attentato parigino, sul perché due ragazzi cresciuti nella “civile e democratica” Europa decidano di imbracciare le armi contro i loro stessi concittadini in nome di una causa, qualunque essa sia (oggi la chiamano “religione”, ieri si chiamava “ideologia”, domani si chiamerà in qualche altro modo).

I sociologi saprebbero dirlo in maniera migliore, ma quello che mi chiedo è quanto di quell'attentato provenga dall'indottrinamento religioso e quanto dalle condizioni in cui i fratelli Kouachi vivevano, quanto dal “nome di Allah” e quanto dalle disuguaglianze sociali delle banlieue con il resto della Francia (e di qualunque altra periferia con il proprio centro, con i tanti “fratelli Kouachi” che non arrivano alle cronache perché artefici di azioni meno eclatanti).

Ci sarebbero stati lo stesso i “fratelli-attentatori” se i governi centrali – a Parigi come a Roma come ovunque – avessero definito strategie per garantire alle classi socialmente ed economicamente deboli le stesse condizioni di vita, le stesse opportunità garantite a chi abita nei quartieri “bene” (da dove di solito arriva la criminalità “in giacca e cravatta”, ma questa è un'altra storia...)?

E qui arriviamo a Foggia, o, meglio, alla sua periferia. A quella bidonville di cui non ha mai sentito parlare, probabilmente, chi oggi scende in piazza a manifestare per la libertà d'espressione in un'Italia in cui i giornali di gossip rendono più delle grandi inchieste giornalistiche. Da noi il pericolo si chiama “alternativa mafiosa”, dove il potere dei clan – come già scriveva Giancarlo Siani per i “muschilli” della camorra negli anni Ottanta – è più forte di un sistema che non garantisce alternative valide, né in termini economici né in termini di istruzione e benessere sociale. Un sistema nel quale il governo, di qualunque colore e di qualunque grado di corruzione, ti viene a cercare per farti pagare le tasse ma non per assicurarti scuole che non cadano a pezzi. Un sistema nel quale si lavora solo per raccomandazione, con i migliori cervelli che scappano e il 61% dei disoccupati che, in mancanza di alternative dignitose, si presta a lavorare in attività colluse con le mafie.

Un sistema per il quale, però, non vengono creati hashtag, né manifestazioni di piazza (se non quando ad arrivare per prime sono le telecamere di qualche rete nazionale). Forse perché per quelle libertà tanto decantate in questi giorni è meglio manifestare quando la minaccia è lontana, quando la nostra quotidianità non cambia tra un prima e un dopo?

Questo articolo è stato pubblicato qui

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