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Droga, perché?

25/1/09 Altopascio: Muore ragazza ventiduenne dopo una serata in discoteca. L’autopsia non rileva la causa della morte. Necessari esami tossicologici. Forse l’assunzione di una sostanza pericolosa, lo zio al telegiornale perdona il fornitore della sostanza letale. La ragazza voleva festeggiare.

 

Aveva preso un bel voto e festeggiare era la conseguenza naturale e logica di uno stato d’animo pieno di felicità, di soddisfazione di sé, il massimo dell’autostima.

 

Si va in discoteca e si balla, si beve un po’, si sta con gli amici che ti sorridono, si complimentano, ti fanno sentire bene, a tuo agio, a posto con te stessa e con gli altri.

 

Che bisogno c’è della droga?

 

Non basta il contorno, il conforto, il calore degli amici, i complimenti e la gioia dei genitori?

 

Perché non è sufficiente il piccolo sballo della piacevole confusione della discoteca, della musica sparata ad alto volume, del piccolo e magari ripetuto drink di frutta con un po’ di alcol?

 

Cosa cerchi ancora, ragazza di buona famiglia, brava a scuola, con il futuro buono di chi è nato sufficientemente benestante e con fondate speranze di una vita tranquilla di famiglia e lavoro?

 

Cosa vuoi di più? E soprattutto perchè?

 

E perché poi lo spostamento dell’ attenzione sul personaggio che ti ha fornito la droga? Perché le parole accorate e dolorose dei familiari rivolte al “disgraziato” che ti ha fornito una pasticca forse alterata e pericolosa? Cosa centra questo discorso con la tua morte, perché si vuol deviare l’attenzione da questa come se alla base di tutta la tragedia non ci fosse la volontà della ragazza di assumere la sostanza proibita bensì l’imprudenza, l’imperizia o la volontà di nuocere del fornitore?

Forse perché è più doloroso domandarci perché una ragazza di buona famiglia, una ragazza normale di venti anni possa desiderare assumere una droga? Domandarsi perché le sue difese contro questa pratica assassina non erano così forti da farla rinunciare, chiedersi se gli era stato sufficientemente insegnato che comportarsi così è male, è sbagliato, è rischioso?

 

Forse perché deviando l’interesse sulla possibile tossicità della pasticca si sminuisce il dolore che viene dalla consapevolezza di non aver fatto tutto, di non aver fatto abbastanza, di non essere riusciti a proteggerla in maniera sufficiente da questa pratica tanto odiosa e pericolosa quanto incredibilmente diffusa in tutta la popolazione giovanile e non.

Ora se è importante agire sulla repressione di questi fenomeni di spaccio di sostanze stupefacenti da parte degli organi di vigilanza lo è ancora di più agire a monte del problema, cercando di incoraggiare le famiglie a vigilare di più sui propri figli. 

Sui giornali di questi giorni è apparso un concetto abbastanza distorto e ridotto del termine vigilare.

Vigilare vuol forse dire guardare nelle tasche dei figli? Leggere il diario di nascosto per vedere se ci sono accenni a consumo di sostanze? Annusare l’alito quando rientrano a casa? Oppure, come diceva il giornale, acquistare in farmacia il narco-test da fare di nascosto sulle urine, magari inventando una scusa per non far tirare lo sciacquone? E’ questo che si intende per vigilare?

Penso che ciò sia inutile e anche alquanto ridicolo. Ricorrervi può rappresentare al limite un rimedio estremo a cui non bisognerebbe mai ricorrere se non in casi eccezionali.

Vigilare vuol dire invece sentire la necessità e la gioia di parlare con i propri figli, di riuscire a dedicare loro il giusto tempo e la giusta attenzione, vuol dire essere sempre partecipi della loro vita, anche se in giusta disparte, e delle loro difficoltà. Riuscire a stabilire con loro un rapporto costante e sufficiente per capire se il loro sviluppo è equilibrato, se si sentono soli o in conflitto, se hanno bisogno di aiuto, far capire loro che la famiglia rappresenta il loro principale punto di riferimento, sempre, in ogni circostanza, al di sopra di tutto e di tutti.

Capire è in qualche modo prevenire e questo ritengo sia il modo migliore per assicurare quella vigilanza da tutti auspicata sui propri figli.

Non certo facendo di nascosto il narco-test di cui pare ci sia una grande richiesta tanto da esaurire le scorte: segno indubbio del fallimento della famiglia, della carenza o mancanza dell’azione educativa che viene progressivamente perduta e lasciata alla televisione e a internet. Chi deve ricorrere ad un test per sapere o confermare che il figlio si droga dimostra una superficialità che un genitore non dovrebbe permettersi, una mancanza di rapporto e di fiducia che potrebbe avere anche conseguenze molto gravi.

Solo infatti con un corretto rapporto dei ragazzi con la famiglia, con i genitori, si può trasmettere a questi il senso della gravità e del pericolo dell’assunzione di sostanze stupefacenti. Solo in questo modo le difese, le barriere mentali e culturali contro l’assunzione di sostanze stimolanti e stupefacenti possono essere efficienti e tali da scongiurare anche un piccolo assaggio, anche la voglia di provare “per una volta”, anche il piccolo errore che può commettere una brava ragazza di vent’anni, con una vita felice davanti, sicuramente incolpevole e incosciente, punita in maniera troppo crudele per un piccolo sbaglio, per una cosa all’apparenza sciocca, senza rischi e senza conseguenze.

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